di Giulia Chiodini
All’indomani delle stragi di mafia del ’92 si attuò un netto inasprimento della legislazione antimafia. Il terrorismo stragista aveva colpito al cuore il nostro paese. Fu dunque sotto la spinta emotiva di quei tragici delitti che nacque tra le varie misure, il regime dell’ergastolo ostativo, un termine coniato dalla dottrina per indicare l’esclusione dei condannati per reati di mafia, terrorismo ed eversione, che si rifiutavano di collaborare con la giustizia, dalla concessione dei benefici penitenziari. Questo provvedimento fu di cruciale importanza per combattere uno dei maggiori punti di forza delle associazioni mafiose, l’omertà dei condannati. Si decise quindi di attenuare il principio rieducativo della pena, modificando l’art 4 bis dell’ordinamento penitenziario e rendendo la collaborazione l’unica strada per ottenere i benefici penitenziari, basandosi quindi su una presunzione assoluta di pericolosità del condannato per quella particolare categoria di reati, che per sua scelta si rifiuta di collaborare con la giustizia. È infatti essa una scelta, spesso (ma non sempre) dovuta alla non volontà di distaccarsi dal patto associativo che lega il condannato all’associazione mafiosa di appartenenza.
Il cammino della giurisprudenza per affermare l’illegittimità dell’ergastolo ostativo è stato lungo e controverso, fino a giungere alla recente Ordinanza 97/2021 della Corte Costituzionale. Esso infatti è stato sempre accusato di vanificare del tutto per questo tipo di condannati la finalità rieducativa della pena, violando così l’art 27 comma 3 della Costituzione. Ma sia nel 2003 che nel 2013 la Corte aveva negato la presenza di un automatismo nella negazione dei benefici e quindi l’illegittimità della misura, ricollegando questa negazione alla scelta del singolo di non collaborare. Motivazione che non appariva convincente, soprattutto alla luce delle numerose e differenti motivazioni individuali alla base della non volontà di collaborare che emergevano dai casi pratici e che la norma non permetteva di valutare singolarmente.
Nel 2019 la Corte EDU analizzò la questione nel Caso Marcello Viola contro Italia, sancendo che vietare al condannato di reinserirsi nella società ledeva il principio di dignità umana e censurando proprio quella presunzione assoluta di pericolosità del condannato non collaborante per contrasto con l’art 3 della Convenzione, poiché essa comprometteva secondo la Corte le sue possibilità rieducative. Sempre nel 2019, la Corte Costituzionale aveva poi con la sentenza 253 dichiarato l’illegittimità dell’art. 4 bis ord. Pen. nella parte in cui non consentiva ai condannati all’ergastolo ostativo di avvalersi dei permessi premio, quando esistano elementi per escludere “l’attualità dei collegamenti” con l’associazione, aprendo la possibilità a una valutazione caso per caso che rompesse il meccanismo dell’automatismo.
Diciotto anni dopo la prima pronuncia, la Corte Costituzionale è tornata a esaminare questioni di legittimità costituzionale relative all’ergastolo ostativo. La questione è stata riproposta nel 2020 dalla Cassazione, stavolta però non con riferimento a tutti i condannati ex art 4 bis dell’ord. penit., bensì specificatamente ai condannati “per reati di mafia e di contesto mafioso”, riferendosi in particolare alla possibilità che essi possano essere ammessi anche alla liberazione condizionale. La risposta della Corte Cost. è giunta appunto con l’ordinanza 11 maggio 2021, n.97. Una risposta che va in senso opposto rispetto al 2003 e che ha suscitato a sua volta serie perplessità.
La Corte non è entrata nel merito della questione, ma ha disposto il rinvio della trattazione a maggio 2022, «dando al Parlamento un congruo tempo per affrontare la materia». La Corte però sottolinea ancora come la presunzione assoluta impedisca alla magistratura di sorveglianza di valutare il percorso carcerario del condannato, soprattutto dopo un tempo di espiazione di 26 anni, minimo richiesto per poter accedere alla valutazione della liberazione condizionale. Questo istituto infatti “consente l’effettivo reinserimento anche dell’ergastolano nel consorzio civile» (sent. 264/1974 C. cost.). La Corte inoltre evidenzia come la normativa in questione abbia un ruolo apicale nella lotta alla criminalità organizzata, e come un intervento puramente demolitorio potrebbe avere effetti disastrosi sull’attività di contrasto.
Per poter avere una visione chiara e complessiva della questione, e per comprendere a pieno le difficoltà di valutazione della scelta del condannato di collaborare o meno con la giustizia, e di tutto quello che questa scelta comporta, è necessario infatti considerare la peculiarità del patto associativo di stampo mafioso. Spesso non si coglie la perpetuità dell’appartenenza a una associazione mafiosa. Si tratta di un patto di sangue, non una semplice associazione ma un giuramento, da cui ci si libera solo con la morte o con la collaborazione con la giustizia. La volontà di cambiamento non è impossibile, ma va dimostrata in modo netto la dissociazione.
Quali sono dunque i rischi dell’addolcimento della normativa carceraria? Come intervenire sulla legislazione che ci ha reso una avanguardia nella lotta al crimine organizzato in tutto il mondo? Il rischio principale è che si incrini il pentitismo, strumento fondamentale nella lotta alla criminalità organizzata, poiché unico che rompe quella sfera di omertà che protegge e rende spesso impunibili i mafiosi. Apparirebbe infatti sempre meno conveniente collaborare. I mafiosi, infatti, potrebbero uscire dal carcere senza dare nessun contributo. Si attenuerebbe l’ergastolo, unica pena che fa veramente paura ai mafiosi, poiché interrompe la loro carriera, o comunque la ostacola in modo decisivo.
E quindi cosa fare? Se entro un anno il parlamento non prenderà una decisione, la responsabilità cadrà interamente sul singolo magistrato di sorveglianza (colui che decide sull’esecuzione della pena), che si troverebbe a decidere caso per caso. Una responsabilità immensa che lo esporrebbe a un enorme pericolo. Va ricordato inoltre che i magistrati di sorveglianza sono pochissimi in proporzione al numero dei detenuti (256 unità a fronte di circa 10mila magistrati). Nel Tribunale di Milano sono infatti solo 23 i Magistrati di Sorveglianza, a fronte di una popolazione carceraria di circa 6500 detenuti. Appare quindi evidente come mantenere l’equilibrio tra rieducazione del condannato e prevenzione generale in base anche alle sue particolari caratteristiche sia decisamente complesso, soprattutto considerando gli infiniti fattori che questo influenza.
Il dibattito rimane ancora aperto mentre l’ergastolo ostativo rimane “congelato”, e le proposte sono in questi giorni in discussione alla Commissione di Giustizia. È interessante la proposta che giunge al Parlamento dalla Fondazione Falcone, presieduta da Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso nella Strage di Capaci, ovvero di concedere i benefici di legge anche ai condannati all’ergastolo ostativo, a patto che “si impegnino in iniziative riparative nei confronti delle vittime dei loro reati”. Ha spiegato infatti proprio Maria Falcone, che ha svoluto dare un suo contributo al dibattito, che “Il fine è tener conto delle indicazioni della Consulta senza indebolire la lotta alla mafia e senza vanificare le grandi conquiste fatte in questi anni grazie a una legislazione costata la vita a tanti servitori dello Stato». Il focus è stato quindi posto sulla effettiva partecipazione dei condannati alle forme di giustizia riparativa e al loro contributo per la realizzazione del diritto alla verità, di cui sono titolari le vittime, i loro familiari, ma anche l’intera collettività. Rimane solo da attendere quali saranno gli sviluppi futuri della discussione in Parlamento.