Tra i tanti libri pubblicati sulla poetessa milanese Alda Merini ce n’è uno che adoro più di tutti, Aforismi e magie (BUR, 1999). E’ una raccolta di poesie e aforismi che esprime compiutamente il suo spirito di donna e poetessa, la sua ironia, il suo amore folle per l’amore, per l’astrazione, per la corporeità dell’essere umano. In questa antologia poi c’è un verso che ostinatamente e ciclicamente torna a bussare alla mia mente. Recita così: Il bello è bello solo quando rende in altezza di pensiero. Sono ormai convinta che queste parole abbiano plasmato la mia interpretazione del concetto di bellezza. Ritengo bello – delle cose e delle persone – ciò che mi interroga, mi stimola, mi trasforma. La bellezza come un processo che, al pari di un viaggio, non ti lascia mai uguale a come ti ha trovato.
Ieri sera ho visto uno spettacolo al Piccolo Teatro Grassi di Milano. Si intitola – è ancora in scena – Dieci storie proprio così. Ecco, ora che ho chiarito la mia idea di bellezza, posso dire di averlo trovato bello senza risultare banale. Ha tutti gli ingredienti delle “cose fatte bene”: semplicità, pulizia concettuale, documentazione, passione, il tutto condensato in sessanta minuti. Un’ora che è volata, presa com’ero a trattenere le informazioni, simultaneamente a verificarle, ed emozionarmi. Emozionarmi molto. E guardate, l’emozione prenderebbe chiunque, non tanto per un fatto di sensibilità individuale, di suscettibilità ai messaggi emotivamente caricati, quanto per la capacità del testo e dei suoi interpreti (gli attori e le attrici sono sensazionali) di risvegliare il cittadino che vive in noi.
La sala era piena di scolaresche che avevano incontrato gli attori nell’ambito del progetto “Il palcoscenico della legalità”, un laboratorio sui temi della lotta alla mafia condotto in larga parte con tecniche teatrali. Centinaia di studenti solo in Lombardia hanno partecipato alle attività; prima ancora è stata la volta di Napoli (dove lo spettacolo è nato), poi di Palermo, e a breve toccherà a Roma. E sono infatti alcune delle principali vicende criminali e di riscatto sociale avvenute in queste città a dare forma al copione in quanto modificato ad ogni tappa del tour con l’aggiunta di storie del territorio. Il mutamento, il processo, le specificità e la bellezza unica dei luoghi.
Lo spettacolo contiene, a mio avviso, un messaggio politico che la regia ha voluto rendere esplicito proiettando alcune frasi sulla parete di fondo (una scenografia minimale davvero efficace nel dare enfasi proprio al messaggio). “Niente di buono nel mondo è stato fatto senza passione”, “le idee non si fermano con la paura”, “Mostri non si nasce, si diventa”. Qui c’è sintetizzato tutto il senso – la lezione – che si può ricavare dalla rappresentazione. Un messaggio la cui potenza è sublimata dalla recitazione teatrale: Italia terra di mafia ma non popolo di mafiosi, Sud e Nord discorsivamente costruiti come identità in opposizione da un potere che ha interesse a dividere e indebolire, processi di rimozione della mafia ovunque imbastiti ad arte ma sbugiardati dalle indagini e dalle umane azioni di rivolta, i bisogni e i diversi modi di manifestarli come l’abitudine alla violenza di un ragazzino di borgata che cerca solo una “carezza d’adulto”, il lavoro messo a rischio o tolto quando la mafia morde e quello restituito quando lo Stato lotta, quando la società civile (si) sogna in grande senza paura. E poi i simboli, storie particolari di donne e uomini che assumono significato universale e diventano esempio anche perché allo spettatore non vengono resi noti i nomi propri dei protagonisti. Biografie che diventano favole nel senso letterario, cioè con una morale. La trasformazione. La consapevolezza che allora si può fare davvero. Che può vincere la scelta sulla predestinazione ma per questo ci vuole la politica. Che non c’è convenienza nel menefreghismo ma possibilità di convivenza solo nella cura.
Probabilmente, però, il mio punto di osservazione è viziato. Per due ragioni. La prima, conoscevo l’impostazione dello spettacolo. Sapevo che al momento narrativo più cupo del disincanto sarebbe succeduta la fase della speranza, il messaggio di partecipazione. La seconda, e soprattutto questo, conoscevo in gran parte il contenuto delle storie; alcune, poi, noi come Stampo ed io per prima abbiamo anche contribuito a scriverle. No, la drammaturgia è interamente di Emanuela Giordano e Giulia Minoli che tramite studio e interviste hanno ricostruito con cura le vicende. Il motivo di soddisfazione per noi sta nel riconoscimento del nostro lavoro di racconto, reso esplicito quando viene citata l’esperienza di Stampo Antimafioso, implicito quando tu – perché sai cos’hai scritto – rintracci nel testo certi richiami, certe atmosfere, certe parole precise. Come per la vicenda della mobilitazione della ragazze milanesi per Lea Garofalo. Nel riconoscimento costruiamo le sinergie, lo stare “insieme” nel suo più alto senso politico.
Stamattina, scrivendo, mi sono chiesta: sembrerà forse un articolo con un taglio troppo personale? O potrà essere considerato un commento ragionato, utile, culturalmente rilevante, sullo spettacolo? Mi sono data questa risposta: in fondo, il personale è politico.