C’è stato un tempo in Italia in cui i manicomi erano lontani armadi in cui nascondere gli scheletri della società: insieme ai malati mentali gravi era rinchiuso chi dava fastidio, chi dava scandalo o più semplicemente chi non era in grado di integrarsi nel quieto vivere dell’Italia profonda. Persino ragazze madri. In quegli anni di fermento che avrebbe prodotto la legge Basaglia un giovane don, Giacomo Panizza, per la sua tesi si apprestava a indagare il tema della disabilità. Mai avrebbe immaginato che la sua ricerca lo avrebbe portato dalla natia Brescia all’estremo opposto dello Stivale, nella particolarissima realtà della Calabria: 4 strutture, 800 ricoverati a vario titolo per “disabilità mentale”, 1300 dipendenti (non medici, né assistenti sociali: custodi) e una drammatica mancanza di servizi per chi soffriva invece di disabilità. “Tanta gente vegetava in carrozzina in casa senza saper né leggere né scrivere” ricorda lucidamente don Panizza, “e soprattutto alle ragazze veniva impedito di uscire perchè le madri, protettive, non volevano che innamorandosi soffrissero.” Più volte genitori affranti hanno chiesto a don Giacomo “cosa abbiamo fatto per meritare un figlio disabile” e probabilmente la sua sensibilità gli avrà impedito di puntualizzare che la religione non è una questione di castighi.
Correva l’anno 1975 e le riunioni a Lamezia Terme – organizzate inizialmente con il sostegno anche economico della Comunità marchigiana di Capodarco – ricevevano una crescente attenzione; il sindaco, alla fine, mise a disposizione un asilo abbandonato da ristrutturare: in 12 mesi è diventata operativa una piccola comunità di 20 persone tra volontari ed assistiti battezzata “Comunità Progetto Sud”, un progetto di inventiva quotidiana per rispondere alle domande di chi soffre, e non per somministrare una carità pre-dosata a tavolino. Dalla necessità di far fronte ai debiti nasce un’idea: una “fabbrichetta”, come la chiama don Panizza, un laboratorio di rame e cornici dove persone disabili che fino a quel momento avevano avuto solo la possibilità di sperimentare la disoccupazione in ogni sua sfumatura avrebbero potuto scoprire la dignità del lavoro, con l’assistenza di artigiani e artisti. Dopo solo due settimane sono arrivati a chiedere il pizzo senza neanche guardare la gente in carrozzina che lavorava, fregandosene della debolezza come della malattia e della povertà.
La comunità di don Panizza ha continuato ad operare nei quartieri ad alta concentrazione mafiosa, condividendo il cortile con mafiosi a cui erano stati sequestrati beni e stabili, anche con un parco giochi in cui possano giocare insieme i bambini dei clan contrapposti tra loro, “sperando che un domani non perpetrino le faide ricordandosi del tempo passato a giocare insieme”.
Nella sua esperienza don Panizza ha avuto modo di conoscere e toccare con mano i meccanismi interni delle “regole educative mafiose”, e ha presentato il 15 Gennaio 2018 allo spazio Melampo di Milano il suo “Cattivi Maestri. La sfida educativa alla pedagogia mafiosa” con il sociologo dell’Università Statale Nando dalla Chiesa e don Virginio Colmegna della Casa della Carità di Milano. Un prezioso contributo alla riflessione collettiva che getta luce su delle zone d’ombra della nostra società su cui per troppo tempo non si è osato o non si è saputo ragionare. “I clan cercano polli da usare e poi gettare, perché i candidati alla successione del boss sono sempre i figli del boss”, sottolinea don Panizza. “In assenza di servizi sociali e riformatori, quanti orfani sono finiti in carcere in cui l’unico esempio erano i mafiosi ed il loro trattamento di favore?”
A proposito di esempio e propagazione di modelli don Panizza racconta, soppesando attentamente le parole: “c’era questo bambino di 10 anni e le sue due sorelle. Sua madre era stata abusata da tre mafiosi che la sfruttavano per tutto, pulizia e cucina, tutto, non sapeva quale fosse il padre di quale figlio. Quando lo abbiamo incontrato con la madre e le sorelle maggiori lui si atteggiava da capofamiglia, da boss, il maschio di casa, un bambino di 10 anni! Ma casualmente abbiamo parlato di Juve e ha iniziato ad ascoltare. Ed è così che è andato oltre quelle 20 cose che imparano i mafiosi, come comandare, sottomettere, rubare, chi chiamare infame e così via.”
Mentre la società civile cerca pazientemente di costruire significati, libertà, comunità diffusa, l’educazione mafiosa non può mai permettersi di educare alla libertà: è un irreggimentare fondato sulla paura, sulla forza, sulla ripetizione di comportamenti (come il pizzo o l’omertà) e non ha bisogno di far scuola: basta un articolo sul giornale che dice che qualcuno è stato ucciso, o il prestigio di piccoli privilegi come una moto prestata in un contesto di disoccupazione e povertà.
Don Panizza ricorda con vividezza di particolari una storia indicativa di questa differenza radicale di prospettive: “Una preside esasperata per il figlio di un boss che ad ogni intervallo cercava qualcuno da picchiare senza che nessuno osasse reagire, invitò a colloquio il padre, si assicurò che tutti i docenti fossero presenti -nessuno escluso-, e disse eufemisticamente al boss “suo figlio non può fare il bullo”. Il padre in tutta risposta andò dal figlio, gli rifilò un deciso ceffone e lo rimproverò aspramente “quante volte ti devo dire che queste cose non le devi fare a scuola… ma fuori!”.
L’educazione “mafiosa” non si esprime solo nel recinto di clan, famiglie e aspiranti nuove leve: la relativa mentalità si diffonde in larghe parti della società, come testimoniato dalle argomentazioni e dai silenzi dei quartieri assuefatti alla mafia, degli imprenditori che credono di poter esser complici “alla pari” dei mafiosi. Non è necessario essere mafiosi per essere dalla parte dei mafiosi, per perpetrare la mentalità per cui basta pagare e ognuno si può comprare.