di Alice Barchetta
Il regime 41-bis, conosciuto come “carcere duro”, introdotto nel 1968 dalla Legge Gozzini in via temporanea tra le norme per il contrasto della criminalità organizzata, negli anni si è trasformato in una misura permanente dell’ordinamento penitenziario. L’obiettivo era e rimane quello di impedire qualsiasi tipo di contatto e comunicazione tra detenuti e organizzazioni criminali sia all’interno che all’esterno delle mura carcerarie. Non a caso, tra i destinatari di questo particolare trattamento penitenziario ritroviamo, tra gli altri, coloro che hanno ricoperto ruoli di vertice delle associazioni a delinquere di matrice mafiosa o terroristica.
I numeri. Il primo Rapporto sulle Donne Detenute in Italia pubblicato dall’associazione Antigone nel 2023 fornisce alcuni numeri a riguardo. Gli uomini sottoposti al regime di 41-bis sarebbero 716, mentre le donne sarebbero 12. “Sebbene il numero attuale di detenute al 41-bis possa sembrare non rilevante, – si legge – risulta essere comunque elevato se si pensa al tipo di restrizioni cui queste persone sono sottoposte: possono effettuare un solo colloquio al mese dietro a vetro divisorio, eccetto per il caso di colloquio con minori di 12 anni, della durata di un’ora; i colloqui sono videosorvegliati da un agente della polizia penitenziaria e qualora vi sia un ordine dell’Autorità̀ giudiziaria, le conversazioni possono essere ascoltate dall’agente; in alternativa ai colloqui visivi possono essere autorizzate, dopo i primi sei mesi di applicazione del regime, a svolgere un colloquio telefonico con i familiari, che devono recarsi presso l’istituto penitenziario più̀ vicino al luogo di residenza al fine di consentire l’esatta identificazione degli interlocutori; sono collocati in cella singola e hanno diritto a solo due ore all’aria aperta”. Ovviamente il catalogo di restrizioni è lungo e non si esaurisce con quanto indicato.
Il sistema di sicurezza descritto non permette di essere monitorato nella sua complessità rischiando spesso di diventare penalizzante in termini di trattamento penitenziario. Ne consegue il rischio di emarginazione delle donne all’interno delle carceri, ma anche dalla società.
Alcuni casi. È usuale pensare che le donne non possano ricoprire figure di alto rilievo all’interno di organizzazioni mafiose, ma è noto come sin dai primi anni 90 gli uomini venissero sostituiti da mogli o sorelle quando questi venivano arrestati. Un esempio lampante è sicuramente quello di Teresa De Luca Bossa, prima donna camorrista sottoposta al regime del 41-bis, moglie di Umberto De Luca Bossa e madre di Antonio e Anna. Vi è poi Nella Serpa, detta “Nella la Bionda”, che è stata nel 2012 la prima boss donna negli ambienti affini alla ‘ndrangheta a varcare la soglia di una cella sottoposta al regime. Maria Licciardi nominata “Lady Camorra” sconta la sua pena al 41-bis dal 2021 dopo essere stata accusata di associazione di tipo mafioso, estorsione, ricettazione di denaro e turbativa d’asta. Le donne che scontano la loro pena sotto il regime 41-bis sarebbero tutte e 12 passate presso la casa circondariale de L’Aquila o attualmente detenute all’interno di questo carcere.
I nomi femminili sopra citati sono solo alcuni di quelli presenti negli elenchi ufficiali e da questi si evince che, nonostante le organizzazioni mafiose siano maschili per consuetudine, le donne non ricoprano soltanto un ruolo di cornice all’interno di queste realtà.Nel dicembre 2023, l’Organization of Security and Cooperation in Europe (Osce) ha pubblicato un rapporto nel quale indicava che, a causa del paternalismo giudiziario e stereotipi di genere presenti a livello internazionale, c’è una forte tendenza a sottovalutare la componente femminile delle organizzazioni criminali. A seguito di quanto riportato è bene sottolineare come ciò che avviene all’interno delle organizzazioni criminali è fortemente legato ai cambiamenti della società, che influiscono sul ruolo delle donne e sul loro agire nei rispettivi gruppi di appartenenza.
Mafie diverse, diverso ruolo. La rivista lavialibera riprende un’analisi di Felia Allum a commento del rapporto Osce dove viene suddiviso e studiato il ruolo delle donne all’interno delle organizzazioni criminali. Nella realtà di Cosa Nostra e nella ‘ndrangheta, per esempio, le donne sarebbero escluse dalla possibilità di entrare nei sodalizi e quindi esenti dalla partecipazione di rituali di affiliazione. Nei codici tradizionali di Cosa Nostra, le donne sarebbero considerate inferiori perché percepite come più emotive. Tuttavia, poiché entrambe le organizzazioni sono caratterizzate da una forte interconnessione tra famiglie e clan, le donne trovano spazio nel ruolo di trasmettitrici delle regole dell’organizzazione e nell’amministrazione degli affari quando le figure maschili sono in carcere. Alcune donne riescono anche ad assumere ruoli di comando in determinati settori commerciali e criminali. Nella camorra, sin dagli ultimi anni di fine Ottocento, le donne sono state attive nell’economia informale napoletana, operando nell’usura, nel mercato della prostituzione, nel contrabbando di sigarette e nel traffico di droga. Molte di loro hanno raggiunto posizioni di leadership e al loro seguito, infatti, sono presenti uomini pronti ad eseguire gli ordini da loro imposti. “Le donne di camorra sono le più numerose al 41- bis”, evidenzia Antigone, ma sarebbero anche le più numerose collaboratrici o testimoni di giustizia. Stando ai dati del ministero dell’Interno, al 31 dicembre 2018 il numero di collaboratrici di giustizia era di 60 (a fronte di 1129 uomini), con una prevalenza di donne che provenivano dalla camorra (17), seguite da quelle di cosa nostra (11), mafia pugliese e altre forme di criminalità organizzata (rispettivamente 11), infine ‘ndrangheta (10). Viceversa, al 31 dicembre 2021, su 56 testimoni di giustizia, ben 16 risultavano essere donne, in questo caso il numero più alto di loro aveva testimoniato contro la ‘ndrangheta (6), poi Cosa Nostra (3), camorra (3), altra criminalità (3) e infine mafia pugliese (1).