di Ombretta Ingrascì*

Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola, Tita Buccafusca. Donne che hanno deciso di allontanarsi dall’universo mafioso e hanno trovato la morte. La prima uccisa, le altre uccidendosi. Poco cambia. Il messaggio della ʼndrangheta, che leggiamo dietro alle loro storie, è lo stesso: sfidare la mafia collaborando con la giustizia non porta lontano. Un messaggio di un’organizzazione che ha paura dei gesti di ribellione femminili, perché sa che il cambiamento può partire dalle donne. E allora quale miglior deterrente se non la morte per evitare che altre donne trovino il coraggio di Lea, Maria Concetta e Tita? A questo messaggio lo Stato deve opporne un altro facendo capire che cambiare si può, come il buon esito di tante altre storie di collaborazione con la giustizia dimostra. Certo la vita sotto protezione non è facile, ma è possibile e soprattutto, come molti pentiti ci tengono a precisare, «è una vita pulita».
Per le donne la collaborazione significa prospettare ai figli un futuro lontano dall’ambiente criminale. Sono i figli che nella maggior parte dei casi forniscono motivo e coraggio di fuggire dal mondo mafioso e chiedere aiuto allo Stato, uno Stato che negli ultimi tempi in Calabria ha dimostrato di essere presente grazie al lavoro di magistrati e forze dell’ordine. E la ʼndrangheta questo l’ha capito e non può permettersi che ci siano altre Lea, Maria Concetta e Tita. Visto il loro peso all’interno dell’organizzazione, le donne hanno meno possibilità rispetto agli uomini di fornire agli organi inquirenti informazioni particolarmente rilevanti da un punto di vista processuale. Pertanto più che il tipo e il numero di informazioni di cui sono portatrici, è il tratto femminile della loro testimonianza a infastidire, a costituire un aggravante. Lo ha spiegato bene il Procuratore aggiunto presso la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, Michele Prestipino, intervenendo giovedì scorso alla Summer School organizzata dal prof. Nando dalla Chiesa presso l’Università degli Studi di Milano, a chi gli chiedeva se nei prossimi tempi aumenteranno i collaboratori di giustizia nella ʼndrangheta. Per il Procuratore è «il pericolo del contagio» a spaventare i clan. Di certo, sottolinea Prestipino, le campagne di biasimo per il suicidio di Maria Concetta Cacciola e Tita Buccafusca costruite dalla stampa locale contro la Procura rischiano di disincentivare collaborazioni e testimonianze a discapito non solo della possibilità di venire in possesso di utili informazioni, con cui impostare le indagini e assieme ad altre fonti costruire l’impianto probatorio dei processi contro la ʼndrangheta, ma anche a svantaggio di tutti quei soggetti che vorrebbero liberarsi dai vincoli dell’organizzazione mafiosa. La figlia di Lea Garofalo, Denise, Martedì 20 settembre ha deposto nel corso del processo per l’omicidio di sua madre. Una deposizione coraggiosa, difficile, che va sostenuta da parte delle istituzioni e dell’opinione pubblica. Sostenerla, infatti, significa testimoniare con lei, mandando un segno a tutte le potenziali testimoni e collaboratrici di giustizia. ‘Siamo con voi’: un messaggio che può aprire strade di emancipazione a donne costrette a vivere all’interno della cultura di morte mafiosa.

*autrice del libro “Donne d’onore. Storie di mafia al femminile”, edito da Bruno Mondadori, Milano, 2007.

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