di Monica Forte
Nel solo arco temporale di una settimana sono stata investita da notizie che hanno fatto vacillare, lo ammetto, il mio proverbiale ottimismo.
L’udienza per il processo di appello di pochi giorni fa, rimandata a maggio, ha fatto tornare alla memoria il caso dell’ex sindaco di Lodi condannato per turbativa d’asta in relazione ad un bando pubblico per la gestione della piscina comunale.
Nel comune di Senago, a nord ovest di Milano, la sindaca nomina in giunta il fratello di un condannato in via definitiva per ‘ndrangheta affidandogli deleghe importanti quali commercio, sanità e vaccini Covid.
Il sindaco di Opera, un comune del sud ovest milanese, viene arrestato con l’accusa di corruzione e connivenze nella gestione degli appalti pubblici anche in relazione allo smaltimento abusivo di rifiuti speciali sul territorio comunale.
Ben si intende che si tratta di casi minoritari rispetto alla stragrande maggioranza degli amministratori locali che svolgono il proprio compito nel rispetto della legalità e che spesso, anzi, sono vittime di intimidazioni da parte delle criminalità organizzate proprio perché non cedono né a pressioni né a lusinghe, e tuttavia i casi sopra citati mi obbligano ad una riflessione che nulla ha a che vedere con la riconosciuta crescita del nostro territorio regionale in termini di consapevolezza della presenza mafiosa nonché nella messa in atto di strumenti di prevenzione e contrasto, e tantomeno con la normativa in materia di anti-riciclaggio e anti-corruzione che sono tra le migliori al mondo.
Piuttosto la mia riflessione riguarda la percezione del proprio ruolo. E’ ormai nota la volontà delle mafie di condizionare gli enti locali per ottenere un accesso privilegiato alle risorse pubbliche e per influenzare gli indirizzi dell’agire amministrativo, si pensi ai piani di governo del territorio, non più con atti violenti o intimidatori ma tramite nuove forme di corruzione in cui tutti i soggetti coinvolti abbiano un vantaggio reciproco e quindi il comune interesse a celare accordi e modalità di transazione. Eppure mi sembra che a tale conoscenza e consapevolezza non corrisponda ancora, o forse non più, da parte di istituzioni e politica un saldo e inattaccabile rispetto per il proprio ruolo e per ciò che rappresenta, non ci si sente abbastanza investiti di una responsabilità talmente alta da dover tutelare il proprio mandato e anche la propria immagine al di sopra di qualsiasi dubbio perché a rischio vi è la credibilità stessa dello Stato e quando questo avviene le mafie hanno gioco facile. Così come il comune sentire sempre meno spesso si indigna di fronte a casi come quelli riportati sopra tant’è che le notizie, dopo un breve clamore, si spengono soppiantate velocemente da altre.
Ritengo invece, che pur nella loro eccezionalità, i casi citati debbano indurre ad una riflessione profonda sul senso del dovere, sulla necessità di apparire onesti, oltre che esserlo, sulla improrogabilità della salvaguardia di politica e istituzioni perché, come recita l’art. 54 della nostra Costituzione, “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore” più di tutti gli altri.
E allora, questa volta vorrei che i casi di Opera, di Senago, di Lodi, insieme a tutti gli altri, non si limitino ad essere citati in incontri per addetti ai lavori, mi piacerebbe che fossero un spunto per parlare di etica, di valori, di “disciplina ed onore” magari in famiglia, con figli e nipoti. Per una volta contrastiamo la frenesia e la velocità con le quali anche noi adulti ci siamo abituati a consumare le notizie e torniamo a pronunciare con orgoglio parole come etica, onore, dovere, valori, che sembrano fuori moda ma sono i pilastri di una società sana e democratica.