La paura. E il coraggio. Due sentimenti apparentemente contrastanti camminano a braccetto nella vita di un uomo. È un cronista. Un giornalista “giornalista”, come l’avrebbe definito il collega Giancarlo Siani, ucciso per mano camorrista il 23 settembre 1985. Capelli scompigliati, due occhi azzurri limpidi, una penna e un taccuino. Che scrive, molto. Troppo, per alcuni. Diceva che a Roma c’era la mafia, che c’erano quattro re, che si incontravano, facevano affari, stringevano alleanze, si spartivano il territorio. Faceva nomi e cognomi, ipotizzava scenari, faceva collegamenti. Intanto, in un palazzo vicino, altre persone indagavano. Sullo stesso argomento, sulle stesse persone, sulle stesse dinamiche criminali. Un giornalista e due magistrati. In mezzo ad una città silente, che proseguiva indisturbata la sua vita. In mezzo alla società civile che criticava Marino per un’auto parcheggiata o per una cena fuori luogo. Boom. “Mafia Capitale”. Colonne di quotidiani riempiti da questo nuovo caso internazionale. Trasmissioni televisive con i più svariati ospiti. C’è spazio anche per il “funerale Casamonica” con carrozze e cavalli al seguito, e le dimissioni del sindaco Ignazio Marino, che apre il vuoto istituzionale. Mesi di parole, dibattiti, accuse. Poi il silenzio. Quello che lentamente ti isola. Ti mette in un angolo.
Lirio Abbate fu il primo a scoperchiare il sistema criminale romano. Documentava gli spostamenti di Massimo Carminati, “ er cecato”, personaggio di spicco della destra eversiva romana. Il re di Roma per eccellenza, colui che con una telefonata riusciva a far correre un funzionario del comune capitolino da Buzzi, il “mago delle cooperative”, socio di Carminati. In un paese quasi orfano di un’informazione veramente libera, c’è un giornalista che racconta fatti. Abbate vive da anni sotto scorta, a causa delle minacce mafiose durante il suo encomiabile servizio pubblico a Palermo. Ma la paura non ha mai preso il sopravvento sul coraggio. Dunque Roma, la capitale. E sempre un assillo: scrivere. Quello che si vede, quello che si sente. Informare, dal latino informare «dar forma», «istruire», e quindi «dare notizia». Lirio Abbate è arrivato prima di tutti gli altri. O forse è stato l’unico che ci ha provato. Perché essere giornalisti non significa stare seduti ad una scrivania e scrivere, o riscrivere quello si legge da altri. No. Così uccidiamo la professione. Ignoriamo l’esempio di cronisti che sono stati uccisi perché cercavano la verità, a volte scomoda e pericolosa. Essere giornalisti esige uno spirito di servizio. Rendere al prossimo quello che non può osservare da solo. Rendere ad un tuo concittadino uno strumento di giudizio. Rendere a chi giornalista non è un mezzo per poter formulare il proprio pensiero, una coscienza critica.
Il problema sorge quando sei quasi l’unico a farlo. E dunque ti esponi, diventi riconoscibile. Quello che sta succedendo in questi mesi a Lirio Abbate è un fatto gravissimo, inaudito in un paese civile, come dovrebbe essere il nostro. Nessuno chiede all’avvocato difensore di Carminati, Giosuè Naso, di non adempiere alle sue funzioni. Ci mancherebbe. Ma affermare in un’aula giudiziaria «Lirio Abbate che causalmente è di Palermo, che casualmente ha lavorato a Palermo quando c’era Pignatone (il procuratore capo di Roma, ndr), che causalmente frequenta ambienti frequentati da Pignatone, altrettanto casualmente pubblica un articolo nel quale richiama l’esistenza di un dominio criminale su Roma dei quattro re di Roma. Perché non hanno dato a De-Lirio Abbate il premio Pulitzer?», può essere considerata un’arringa difensiva? Quando le organizzazioni criminali non hanno intenzione di infliggere il colpo mortale al “rompiscatole” di turno, attuano spesso una strategia subdola: la delegittimazione. E la strategia riesce a raggiungere il suo obiettivo quando la vittima rimane sola. Spesso in passato abbiamo pianto vite spezzate da un colpo di pistola. Da Giuseppe Fava a Giancarlo Siani. Da Mauro Rostagno a Giovanni Spampinato. E tantissimi altri. Tutte persone che ricordiamo con affetto e dolore da morte, ma che da vive abbiamo spesso abbandonato e isolato.
Ora, cosa vogliamo fare? Restare all’oscuro di tutto e continuare la nostra vita tranquillamente? Rimanere nell’oblio felice di chi non si impegna affinché qualcosa cambi? E chiedo, ai tanti giornalisti prezzolati al servizio del potere, per quanto tempo ancora i soldi avranno più valore della vita degli altri? Per quanto tempo ancora un buon stipendio vi farà abdicare alla vostra reale professione? Per quanto tempo ancora indosserete la maschera di cronista, nascondendo i fatti reali che dovrebbero interessare un Paese civile? il sottoscritto, insieme alla sua piccola redazione di volontari, al contrario vostro, decide di schierarsi. Al fianco di chi subisce insulti e minacce, semplicemente per aver praticato il suo mestiere. Vogliamo esprimere la nostra Solidarietà al giornalista Lirio Abbate e a tutti quei cronisti impegnati nella costante ricerca della verità. Che antepongono un vero servizio pubblico ai meri interessi personali. Siete e sarete sempre il nostro esempio da seguire. Sperando che la paura non prenda il sopravvento sul coraggio. Altrimenti avranno vinto loro. Ma questo non succederà. Mai.