di Mattia Maestri
Una bancarella di libri. Un uomo che sfoglia qualche pagina. Siamo a Palermo, nella centralissima via Cavour. È il 6 agosto. Fa molto caldo, anche se il sole ormai sta calando. All’improvviso tre colpi di pistola e due uomini in primo piano. Uno si allontana velocemente, a bordo di una motocicletta. L’altro è a terra, disteso. Sfigurato. In mezzo ad una pozza di sangue che costantemente si espande sul ciottolato fumante. Si chiama Gaetano Costa, ha 64 anni e fino a quel momento ricopre la carica di procuratore capo a Palermo.
Magistrato integerrimo. Collabora con Rocco Chinnici in varie indagini di mafia: dal traffico di droga che collega gli Stati Uniti alle famiglie siciliane degli Inzerillo, dei Gambino e degli Spatola, con l’ombra sempre più pressante del gruppo di corleonesi. Costa ha da poco ereditato un’inchiesta portata avanti in precedenza dal commissario Boris Giuliano, ucciso da Cosa nostra il 21 luglio 1979, e poi proseguita dal giovane trentenne capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Quest’ultimo riesce a consegnare nelle mani di Paolo Borsellino il cosiddetto ‘rapporto dei 55’, con all’interno nomi, fatti e ipotesi investigative, soprattutto sull’individuazione dei soci occulti dediti al riciclaggio dei clan. Ma in una notte di maggio del 1980, al termine dei festeggiamenti del Santo Patrono di Monreale, mentre tiene in braccio la figlia che si è da poco addormentata, viene freddato alle spalle da due uomini a viso scoperto.
L’ennesimo agguato mafioso. Che tuttavia non interrompe il lavoro del procuratore Gaetano Costa, tanto che la convalida degli arresti vengono firmati, da lui soltanto, proprio all’indomani dell’omicidio del capitano Basile. Un affronto, dunque, per quella compagine corleonese che comincia a manifestare uno strapotere criminale intriso di sangue innocente. Come quello del gennaio dello stesso anno, quando a ‘cadere’ è il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella. Colui che tenta di applicare il suo approccio trasparente nell’urbanistica e nel sistema degli appalti, nel settore prediletto per gli interessi dei clan di Cosa nostra che negli anni del cosiddetto ‘sacco di Palermo’ si sono spartiti i lavori edilizi in tutta la città.
Il legame tra Cosa nostra e il mondo politico è così intenso che l’allora onorevole Giulio Andreotti si reca a Palermo all’indomani dell’omicidio di Piersanti Mattarella, chiedendo conto del delitto direttamente al boss Stefano Bontate, così come emerge dal processo Andreotti che si celebra nel capoluogo siciliano negli anni Novanta. E nonostante il sette volte presidente del Consiglio e ventidue volte ministro venga assolto per i fatti successivi alla primavera del 1980 (mentre è prescritto per i fatti antecedenti a tale data), si ricordano anche le responsabilità politiche di quella corrente andreottiana siciliana, detentrice del potere amministrativo per circa un ventennio a Palermo.
Un anno centrale negli equilibri di Cosa nostra. Una mattanza che ripercorre la scia di sangue degli anni Settanta ed è prodromo degli omicidi eccellenti degli anni a seguire. Perché da questi onesti servitori dello Stato solo una cosa si poteva comprare. La morte.