Alessandro Banfi, Francesco D’Ayala, Paolo Pollichielli e Luciano Regolo ne parlano con Gaetano Savatteri.
18 giugno 2014 h 19,30
Di Francesca Gatti – inviata a Trame.4, Lamezia Terme, Calabria
Non appena emergono appellativi provenienti dal mondo bellico per descrivere un certo tipo di giornalismo, mi accorgo che il giornalismo in sé rappresenta – nel nostro Paese in particolar modo – un terreno dove ci si muove a stento, in maniera incerta, faticosamente, come se si stesse attraversando un campo minato. Ciò avviene quando questa professione assolve al suo più alto compito: quello di evidenziare, di studiare e di denunciare criticità e storture. Mentre si discute il ruolo fievole e vacillante dei giornalisti, cronisti come Luciano Regolo de L’Ora della Calabria vengono liquidati per la semplice ragione per la quale hanno voluto credere fino in fondo allo scopo che il giornalismo da secoli si prefigge. Per questo “la storia di Luciano è la storia emblematica del giornalismo al Sud” e della fine che fanno coloro che vogliono raccontare la disinformazione in Calabria. “La sua è stata una battaglia di dignità che ricopre tutta la categoria dei giornalisti”, spiega il giornalista Paolo Pollichieni di fronte alla folla riunita al Chiostro San Domenico a Lamezia Terme durante la prima giornata della quarta edizione del Festival Trame. E alla domanda riguardante la qualità dell’informazione in Calabria rivoltagli dal direttore artistico Gaetano Savatteri, Pollichielli risponde: “La Calabria ha una cattiva stampa, e i motivi sono due: perché non fa trapelare le notizie positive, e perché possiede cattivi giornalisti. Moltissimi cronisti calabresi se non hanno un padrone se lo vanno a cercare, e spesso sono loro stessi portatori di conflitti di interesse”, proprio in un mestiere che fa della neutralità il suo baluardo. La stessa domanda viene poi rilanciata in questo incontro che dà voce alle diverse voci dei cronisti, anche al direttore di Tgcom24, Alessandro Banfi, il quale fa notare come vi sia un buco nero su questa terra, anzi due: il primo riguardante la famosa Salerno – Reggio Calabria, il secondo la città di Rosarno, “grande questione irrisolta per il nostro Paese in fatto di lavoro e di immigrazione”.
Secondo il giornalista del Sole24Ore Nino Amadore, le questioni su cui bisognerebbe focalizzare l’attenzione per non dimenticare completamente questa terra sono tre: cosa la classe dirigente pensa della libertà, come i media impostano l’agenda informativa – dando ampio risalto alle grandi operazioni mafiose e meno alle riflessioni sulla mafia – e la difficoltà a leggere il territorio, a distinguere le cose belle da quelle brutte”. “Il problema”, secondo il giornalista Francesco D’Ayala, “è che ciò che sta fuori dalla Calabria non lo conosce nessuno e bisogna sapere su cosa puntare, su cosa investire, in modo che i giornalisti possano accendervi sopra i loro riflettori” e che i cittadini possano, in nome di qualcosa di concreto, combattere.
Per concludere, mi rifaccio alle parole di Alessandro Banfi, apprezzate anche dal pubblico presente: “Il nostro è un mestiere che ha sempre presupposto il coraggio, e il coraggio o ce l’hai o non ce l’hai”.