Granollers, 3 agosto 2016
Granollers è una cittadina a 40 minuti da Barcellona. Nel tragitto dalla stazione di Barcellona Sants a Granollers passi da sottoterra, al lungo mare, al giallo dell’entroterra spagnolo, nel cuore della Catalunya.
In stazione ci riconosciamo facilmente, siamo gli unici con zaini e borsoni. Non c’è bisogno di dirselo, da domani lavoreremo insieme come volontari nella prigione giovanile di Granollers e la curiosità si legge negli occhi di tutti: italiani, spagnoli, cechi e messicani.
Gemma, che lavora alla prigione, dice che saranno giorni intensi e non è difficile crederle.
Il primo giorno va così, osservandoci e prendendoci le misure tra noi volontari, organizzando turni di cucina e pulizie mentre ci si racconta quali sono le aspettative. Alcuni hanno già avuto esperienze simili in carcere; la maggior parte no.
I ragazzi messicani sono curiosi di vedere come sia possibile che funzioni un sistema rieducativo. In Messico non è concepito che vengano fatte attività simili. Se ti prendono, cerchi di resistere al peggio.
Il secondo giorno la sveglia suona presto e una passeggiata di mezz’ora ci porta alla struttura, imponente in un paesaggio deserto, secco e sulle tonalità del giallo.
Le regole ce le hanno già comunicate via mail, sono tante e ci vengono ricordate spesso, quindi si comincia col lasciare tutto fuori: telefoni, portafogli, macchine fotografiche, collane, orologi. Sono ammessi solo i nostri vestiti, che per quanto riguarda le donne devono essere il più coprenti possibili. Stiamo entrando nel carcere giovanile maschile di Granollers Quatre Camins, i detenuti arrivano qui che hanno tra i 18 e 21 anni e possono fermarsi fino ai 24.
La struttura è piuttosto recente, e infatti Gemma ci spiega che è stata costruita nel 2009.
Per entrare superiamo diverse porte fino ad una sala che è un piccolo teatro: un palco e alcune file di sedie su cui ci accomodiamo in attesa dei ragazzi. L’incontro non viene introdotto, e ci ritroviamo spontaneamente divisi. I volontari di qua, i detenuti del carcere di là, e ci si osserva un po’. Finalmente qualche volontario cambia posto e iniziamo a mescolarci. Siamo tutti coetanei e in fondo chiacchierare non è così difficile, così partono i primi “come ti chiami” e “di dove sei”.
Poi tutti sul palco e in cerchio ci presentiamo: “Me llamo Samir y soy de Marrueco”, “Yo soy Chiara y soy de Italia”, “Hola soy Angel y vengo de Cuba”. Ogni nazionalità, un applauso; siamo un miscuglio incredibile di luoghi e di volti.
Di gruppi ne incontriamo due e la mattinata passa presentandosi e facendo qualche gioco in piccoli gruppi per conoscersi meglio.
“Solo la vostra presenza qua – dice la vice direttrice del carcere – è di aiuto per loro, per vedere che esiste un mondo al di fuori e diverso da quello che hanno vissuto” e in effetti si percepisce subito. C’è curiosità e allegria nel guardarci e ascoltarci, sembra ci sia voglia di fare gruppo e sentirsi davvero pari.
Ora il cerchio è completamente mescolato. Scriviamo su dei bigliettini quali sono le nostre aspettative, le nostre paure e cosa pensiamo di poter dare in questa esperienza di campo internazionale. Lo facciamo noi volontari e lo fanno i giovani detenuti. “Spero che ci sia rispetto”, “ho paura di quello che non conosco”, “voglio portare il mio animo musicale” “spero si annulli il pregiudizio”.
“Espero pasarlo bién!!”.
In queste due settimane lavoreremo all’orto e al giardino urbano che i ragazzi stanno costruendo, continueremo a raccontarci le nostre storie e a condividere la giornata.
Mi chiedevo se sapere per quali crimini si trovano lì quei ragazzi avrebbe influenzato il modo di fare la nostra parte.
Oggi non me lo sono mai chiesto, né ce lo siamo chiesto tra noi.
Abbiamo visto ragazzi come noi che però hanno incontrato un destino diverso dal nostro. Un destino del quale non conosciamo niente e che lascia poco spazio al giudizio.
Domani si comincia a lavorare, insieme.