di Evelyn Crippa

La “Guglielmo Caffè” non è solo un’azienda di fama internazionale, leader del settore, in Calabria, fin dal
1943, ma molto di più: è simbolo di quelle realtà imprenditoriali che non abbassano la testa davanti alle
intimidazioni violente e di stampo mafioso. Consigliere delegato è Matteo Tubertini, oggi sotto scorta a
fronte delle numerose minacce ricevute. Lo scorso settembre, nel corso della “Tre giorni di studi su Mafia e lavoro” – promossa dal Dipartimento di Studi internazionali, giuridici e storico-politici dell’Università Statale di Milano – ha raccontato la sua storia, esempio di grande coraggio.


La redazione di Stampo Antimafioso ha realizzato questa intervista a Matteo Tubertini per approfondire
meglio quella che è stata la vicenda dell’azienda e soprattutto per sottolineare l’importanza di dire no
davanti a richieste illecite ed estorsive.

La “Guglielmo Caffè” è un’azienda familiare, cosa significa questo per Lei? 

«L’azienda è parte della vita, mi ha accompagnato in tutta la mia crescita, fin da piccolino ho i ricordi del nonno che andavo a trovare nell’attività. C’è sempre stato un forte legame con l’azienda, legame che va oltre l’aspetto commerciale e del business. Il nonno (Guglielmo Papaleo, ndr) è riuscito, a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, con grandi sacrifici a far crescere l’attività. È nato come garzone di bottega, poi, come tanti imprenditori dell’epoca che hanno rilanciato l’economia italiana nel post guerra, nonno è stato uno dei pionieri di questa ripartenza». 

Nel corso del tempo avete subito atti intimidatori. Quando sono iniziati? 

«Io mi sono trasferito in Calabria nel ’98, da giovanissimo, perché volevo proseguire insieme a mio cugino, mia cugina e mio fratello l’attività dell’azienda. Abbiamo iniziato da zero a dedicarci a quest’attività che per noi era nuova, facendo scuola dell’attività che facevamo ogni giorno. Lo spartiacque della mia vita è stato nel 2012. Fino al 2012 abbiamo vissuto una vita lavorativa normale, piena di impegni, di sogni, di traguardi da raggiungere, tutto ciò nella completa normalità. Dal 2012, purtroppo, c’è stato il primo attentato che ricordo molto bene perché io quella sera ero in azienda, erano circa le 20.45 del 30 agosto 2012 e dei soggetti a volto coperto con il passamontagna, entrarono in una parte dello stabilimento e misero due molotov incendiari sotto due mezzi che erano pronti per la partenza il giorno successivo per la consegna del caffè. Da quel giorno è iniziato questo modo diverso di lavorare, in quanto si sono susseguiti tanti piccoli e grandi avvertimenti, dalla tanica incendiaria, alla lettera, al proiettile ricevuto a casa. Nel 2014 abbiamo subito un altro attentato in un’attività legata al gruppo, un villaggio turistico con ristorante, nella notte misero una bomba ad alto potenziale che distrusse l’ingresso del ristorante che era appena stato ristrutturato. Seguirono tanti altri gesti e segnalazioni che non è detto che siano della stessa matrice. Purtroppo le varie denunce hanno portato sempre a delle archiviazioni, sia degli eventi dolosi e quindi dei danni patrimoniali e immobiliari subiti, sia delle intimidazioni. Tutte le indagini si sono risolte nel nulla». 

Lei o la sua azienda avete mai avuto idea di chi potessero essere i responsabili?

«Idee certe non ne abbiamo avute, se le avessimo avute sarebbe stato meglio. Nell’ultimo episodio c’è stato un collaboratore di giustizia che si era aperto verso di noi con una lettera anonima dove riportava nomi e cognomi dei responsabili. L’abbiamo sottoposta all’autorità giudiziaria, poi purtroppo le indagini sono state molto rallentante e post datate, sono iniziate essenzialmente a inizio 2024 per eventi del 2022, quindi probabilmente le prove erano già state inquinate all’origine. Noi i dati li avevamo forniti, avevamo la percezione che dietro tutto ciò ci potesse essere una determinata matrice, però, essendo io una persona garantista, per accusare una persona e portarla in giudizio ci vogliono gli elementi probatori senza i quali sarebbe troppo semplice accusare qualcuno. Quindi io, anche verso chi posso presumere che abbia una certa responsabilità, rimango garantista, è un principio cardine secondo me». 

Quale sentimento ha prevalso in Lei a seguito di questi attentati? 

«All’inizio c’è la paura, ti accade una cosa nuova, ti chiamano i carabinieri nel mezzo della notte, vai a vedere parte della tua vita che è in fumo, devi pensare a come ricostruirla. Con la legge 44/1999 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura) la domanda deve essere presentata entro 120 giorni dalla denuncia, il Prefetto competente valuta i requisiti e entro 60 giorni più 30 (nei casi di particolare complessità) invia un rapporto sulla sussistenza o meno dei presupposti e sulla quantificazione per la concessione dell’elargizione. Il Comitato apposito, entro 30 giorni dal ricevimento del rapporto del Prefetto delibera sulla domanda di concessione dell’elargizione. Il problema è che queste tempistiche non sono idonee. C’è un gap normativo, con una legge che prevede un indennizzo, che però, sempre che ti venga concesso non arriva nei tempi opportuni e c’è uno Stato che non fa da garante. Ti senti nella terra di nessuno. Sono da analizzare queste problematiche perché mettono a rischio l’esistenza delle aziende Italiane essendo il problema è relativo a tutta l’Italia».

Secondo la Sua visione, quali sarebbero le misure idonee per arginare questo fenomeno e per far sentire le imprese più sicure anche, eventualmente, nel denunciare? 

«Le faccio un esempio concreto: se io sono un contribuente e non pago le tasse che sono dovute all’erario, Agenzia delle Entrate mi invia le cartelle esattoriali che io in termini ben precisi devo pagare, altrimenti segue la procedura esecutiva, ed è giusto così. La stessa cosa deve essere garantita all’imprenditore che denuncia e quindi si rende protagonista di un’azione positiva, subisce un danno». 

Come ha trovato il coraggio di denunciare pensando anche ai rischi che poteva correre la Sua famiglia? 

«Dal 2012 vivo in una condizione che è comunque diversa da quella che pensavo quando mi sono trasferito in Calabria. Il coraggio c’è, bisogna avere coraggio, ma non è tanto il coraggio. La paura la superi, il coraggio penso che sia più un fattore di dna, di sentirsi persone per bene, di tornare a casa e avere un rapporto sincero con i propri parenti, con le proprie mogli. Io mi vergognerei a dovermi nascondere da qualcosa che dovrei denunciare. Se tu non denunci un evento delittuoso, ma anzi lo mascheri, dimostri di essere anzitutto una persona poco seria e poi anche debole perché se lo fai per paura dai la possibilità, a chi ti ha fatto l’attentato, di utilizzare le tue paure. Il coraggio lo devi avere per essere un uomo, in qualunque ambito della vita, anche in quello privato. Bisogna denunciare». 

Se Lei tornasse indietro, rifarebbe tutti gli stessi passi che ha fatto?

«Rifarei tutto quello che ho fatto, certamente! Quello che ho subito io, non voglio che lo subiscano altri». 

Lei cosa vorrebbe dire a tutti quegli imprenditori che, a differenza Sua, scendono a patti con la criminalità organizzata o a quelli che non hanno il coraggio di denunciare? 

«Io spero che questi imprenditori siano sempre di meno. Non conviene scendere a patti con la criminalità organizzata. Bisogna battersi per una giustizia certa, nonostante la giustizia abbia delle grandi lacune, se siamo noi i primi a non dare il buon esempio, non possiamo aspettarci poi che lo facciano gli organi giudiziari. Il buon esempio deve venire da noi. Io poi ragiono sempre in buona fede, non penso che ci siano stati depistaggi o che la magistratura non lavori bene, assolutamente. Io penso che la magistratura lavori sotto organico, che abbia scarse risorse e purtroppo sia oberata di lavoro, soprattutto in aree come la Calabria dove anzi, ci sono delle procure che lavorano molto bene e purtroppo però, hanno un carico eccessivo di lavoro e danno priorità a delle attività più importanti dove magari vengono lesi diritti di una certa rilevanza. Una cosa importante la stava facendo Gratteri, dando linfa e alzando l’aspetto mediatico, una sola persona però non cambia il sistema. Per questo, oltre ad incrementare le risorse, ognuno nel suo piccolo deve dare il suo contributo, anche semplicemente con il buon esempio». 

Cosa vorrebbe dire a quei giovani che vorrebbero aprire un’attività in Calabria?

«La Calabria è una regione meravigliosa come il resto dell’Italia. Aprire un’attività in Calabria o, ad esempio, in Emilia, così come in altre regioni, al giorno d’oggi ha delle problematiche. Il problema non è solo legato alla Calabria ma è un problema che dobbiamo affrontare in maniera sincera tutti, farcene carico ed esserne consapevoli. I problemi ci sono in tutte le regioni».

I Suoi dipendenti, per vicinanza nei confronti dell’azienda, per un periodo hanno fatto a rotazione i turni di 24 ore, “vegliando” sull’azienda anche di notte?

«Si, a seguito dell’attentato del 2012. Un articolo del Sole 24 ore, ha parlato di “atto di coraggio e mediatico”». 

Quanto ha contato per voi questo atto di unione? Senza questo “essere famiglia” sareste riusciti ad andare avanti comunque?

«No, assolutamente. Noi siamo una grande famiglia e abbiamo superato questi periodi grazie a chi lavora in azienda, grazie ai tanti clienti che ci scelgono ogni giorno perché scegliendo noi hanno la contezza che scelgono un’azienda Calabrese che ha fatto tanto per questa terra e produce dei prodotti di alta qualità, che è simbolo di trasparenza e di legalità». 

Che impatto ha avuto la vicenda della vostra azienda in Calabria?

Inizialmente ti stanno tutti vicini, poi l’aspetto mediatico cala e ti rimangono vicine le persone che sono più legate all’azienda, come i dipendenti. Comunque noi la vicinanza tramite mail, attestati di stima etc. l’abbiamo avuta, anche di famiglie che ci sceglievano e ci scelgono ogni giorno. Abbiamo avuto anche qualche politico locale che si è esposto per noi, non bisogna generalizzare mai. Le persone non per bene ci sono in qualsiasi ambito, in quello imprenditoriale, nelle forze dell’ordine, nella magistratura, in politica etc. La “mela marcia” c’è in tutti i settori. Bisogna fare squadra tra persone per bene. A seguito della nostra vicenda è nata un’associazione che si chiama “LA TAZZINA DELLA LEGALITÁ” alla quale aderiscono diverse personalità della regione e di cui sono vicepresidente onorario». 

Com’è nato questo progetto?

«È nato a seguito dell’attentato subito nei nostri stabilimenti il 28 luglio. In seguito il libro ha preso il nome dell’evento, racchiude tante storie. Anche tramite questi progetti bisogna dare un messaggio positivo. Il problema è far sì che chi ha paura di denunciare capisca che denunciare è l’antidoto, è l’antibiotico per proseguire verso la legalità e per sentirsi parte di una comunità positiva e dare un contributo alla società. È giusto aprirsi agli inquirenti e alla magistratura a 360° e non avere paura, perché uno che non ha commesso un reato raramente in Italia viene perseguito. Perciò, bisogna essere coraggiosi anche su questo fronte». 

Ci sono altri imprenditori nella sua zona che hanno una vicenda simile alla sua o che comunque le hanno mostrato la loro vicinanza? 

«Ci sono altre aziende che hanno avuto problematiche simili, infatti alcuni proprietari di queste aziende sono anche loro sotto tutela di Stato. Confindustria Calabria è sempre stata molto attenta alle denunce, cercando di far emergere le criticità. Poi però, devono essere gli stessi industriali a non nascondersi e denunciare, perché Confindustria non può fare tutto da sola». 

Com’è cambiata la sua vita da quando lei è sotto scorta?

«È cambiata totalmente, non ho più una vita libera come prima. La tua giornata ha degli orari e degli spostamenti prefissati. Ci sono sempre due persone che mi accompagnano in tutto il territorio nazionale in ogni mio spostamento, anche nella vita privata, quindi anche vacanza. È una situazione molto pesante, però questo dimostra che chi denuncia non viene lasciato solo, ma viene tutelato. Lo Stato esiste, magari molte cose non funzionano, ma se siamo noi i primi a nasconderci le cose non cambieranno mai. In ultimo voglio dare un messaggio positivo: si può lavorare in Calabria, bisogna lavorare con scrupolo, con sincerità e nella legalità e se succede qualcosa di anomalo bisogna denunciare! Chi denuncia viene messo sotto tutela, le aziende vengono tutelate e seppur con problemi di tempistiche vengono indennizzate». 

Vogliamo chiudere quest’intervista sottolineando nuovamente l’importanza della presenza, sul territorio italiano, di aziende coraggiose come la “Guglielmo Caffè”. Scendere a patti con la criminalità organizzata, non solo come affermato dal procuratore della Repubblica di Napoli, Nicola Gratteri, “fa perdere la libertà”, ma nel lungo periodo “fa perdere anche l’azienda”. Le “scorciatoie facili” non sono mai le migliori e da certi circuiti, una volta entrati, non si esce più. Le imprese infiltrate dalla criminalità organizzata rovinano non solo se stesse ma anche l’economia Italiana. Nutriamoci ogni giorno di questi esempi positivi, di esempi che, come questo, ci danno la forza e il coraggio di lavorare sempre a testa alta.