Ero convinto che questa volta fosse diverso. Immaginavo che dopo la notizia (di una fonte “molto attendibile” secondo gli inquirenti) del “tritolo pronto a Palermo per Di Matteo”, fossero arrivate le manifestazioni di solidarietà al magistrato palermitano, impegnato oggi nel processo sulla trattativa Stato-Mafia. Invece mi sbagliavo. Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia, ha subito espresso parole di solidarietà al magistrato più in vista d’Italia, così come il Csm e l’Anm, pronti a testimoniare la loro vicinanza al collega. E poi? E poi tanti, tantissimi cittadini, che si sono dati appuntamento per sabato 15 novembre, organizzando sit-in di solidarietà in tante piazze d’Italia. A me, invece, sono tornate in mente le parole di Giovanni Falcone dopo il fallito attentato ai suoi danni all’Addaura: “Questo è il paese felice in cui, se ti si pone una bomba sotto casa, e la bomba per fortuna non esplode, la colpa è tua che non l’hai fatta esplodere”.
Noi non vogliamo eroi da idolatrare quando vengono barbaramente uccisi, e nemmeno vogliamo diventare fans di uomini e donne che compiono onestamente il proprio dovere tutti i giorni. Noi vogliamo solo uno Stato che sappia contrastare e sconfiggere il più grande cancro che il nostro Paese abbia mai visto, la criminalità organizzata. Ed esigiamo uno Stato che sappia proteggere i suoi uomini migliori, sia con le parole che con i fatti. Una cosa è certa: rispetto a ventidue anni fa, si respira un’aria più consapevole tra i cittadini. Si percepisce la volontà di non lasciare sole le persone che cercano di ostacolare l’avanzata delle cosche, perché la vittoria della legalità sul malaffare, i traffici illeciti e la violenza, riguarda tutti indistintamente e non solo alcuni. È sicuramente un Paese più maturo e più sensibilizzato di allora.
Ma non basta. Anche e soprattutto le Istituzioni devono fare la loro parte. Non si può assistere impassibili al corso inquietante degli eventi. Non una parola dal Presidente della Repubblica, garante della Costituzione. Non una parola dal Ministro degli Interni, colui che promise il bomb jammer a Di Matteo, ma di cui non se ne sa più nulla dal dicembre 2013. E se a tutto ciò sommiamo l’intrusione inquietante nell’ufficio del Procuratore generale Roberto Scarpinato (per consegnare una missiva di minacce anonima), e l’incursione sospetta in casa del pm Roberto Tartaglia (anch’egli impegnato nell’inchiesta sulla Trattativa), la questione diventa assai rilevante e oscura.
Per questo bisogna reagire. Perché uno Stato che rimane silente di fronte a questi fatti non adempie ai suoi compiti fondamentali, di cui è chiamato a rispondere. Troppe volte i silenzi hanno annientato pian piano vite umane. Troppe volte il girarsi dall’altra parte ha determinato azioni criminali contro uomini giusti e coraggiosi. Ricordo ancora come, rileggendo la sua storia, l’avvocato Giorgio Ambrosoli fu lasciato solo a combattere contro un sistema corrotto e criminale. E ricordo ancora come Libero Grassi fu isolato dalla stessa Confindustria perché aveva osato opporsi al pagamento del pizzo a Cosa nostra. È vero, i tempi sono cambiati. Ma non aspettiamo che le persone cadano per imparare la lezione. Non rendiamo Eroi persone che possono essere protette in vita.
Ora bastano le parole. Non solo quelle dei cittadini, che si schierano e prendono una posizione, sentendosi partigiani. Ma anche le parole degli uomini che occupano posti di comando e di rilievo politico, sociale e istituzionale. Mi sarebbe piaciuto vedere il Presidente della Repubblica esprimere un suo attestato di stima e di fiducia al magistrato palermitano e ai suoi colleghi. Mi sarebbe piaciuto sentire dal Ministro degli Interni che ora dalla promessa passerà ai fatti. Ma tutto questo non è accaduto. Tira una brutta aria. E si sente il freddo di un vento silenzioso, che evoca brutta ricordi. Facciamo in modo che il finale sia diverso. Almeno questa volta.