Michela Buscemi è una maestra di vita. Lei che da piccola ha dovuto lottare con i suoi genitori per poter andare a scuola, oggi è diventata un simbolo di forza e coraggio ordinari. Non si sente eroica nelle scelte fatte, anche se negli occhi e nel cuore di chi l’ascolta si accendono un profondo rispetto per questa donna di 73 anni, che senza abbandonare mai il suo bastone ha trascorso quattro giornate a raccontarsi in giro per la provincia di Como, dai bambini delle scuole medie e le alunne delle superiori, fino alle serate pubbliche in oratori e cooperative. Non esistono parole che possano spiegare l’affronto fatto ai boss mafiosi nel 1986 con la scelta di costituirsi parte civile nel maxiprocesso di Palermo, che per la prima volta porterà alla condanna dell’organizzazione Cosa Nostra: «Io ero un cattivo esempio, secondo i mafiosi – racconta Buscemi – perché dimostravo che anche una persona normale poteva costituirsi parte civile contro la mafia, non solamente i parenti dei servitori dello Stato». Michela Buscemi ha abbattuto da sola un muro di omertà. Sola e isolata, perché la sua famiglia e sua madre, che inizialmente sembrava intenzionata ad affiancarla in questa scelta, hanno deciso di rinnegarla, prendendo le distanze anche attraverso un comunicato ai giornali di Palermo.
Michela Buscemi è la maggiore di 10 figli, ha trascorso l’infanzia nella povertà assoluta «come vivono adesso gli emarginati e gli extracomunitari». La sua vita è una lotta quotidiana contro la violenza fisica e morale del padre, «il mio nemico numero uno», una vita di rinunce, fatiche, tentativi di suicidio, fino al coraggio di ribellarsi. Suo fratello Salvatore venne ucciso nel 1976 perché trafficava sigarette senza il permesso dei mafiosi. Rodolfo, un altro fratello all’epoca diciottenne, decise di scoprire chi fossero gli assassini di Totò, ma dopo sei anni il 24 maggio 1982 anche lui venne brutalmente rapito, torturato e buttato in mare in un cunicolo profondo ottanta metri, da cui nessuno è più riuscito a recuperarlo. Di fronte alla possibilità di costituirsi parte civile contro gli assassini, Michela decide di fare questa scelta: «Chiedo giustizia per i miei fratelli, queste furono le mie parole in Tribunale. Ho un carattere che mi fa scegliere di dire la verità, anche se ogni tanto la verità fa male. Io una cosa come la penso la faccio». Ma di fronte a questa scelta “ribelle”, la sua vita viene nuovamente stravolta; le sorelle e la madre la rinnegano, fino ad accusarla di essere una pazza, per paura delle ritorsioni mafiose: «Da quel giorno ho dimenticato e cancellato la mia famiglia dalla mia vita. Non condanno chi si oppone a queste scelte, capisco la gente che ha paura ma non capisco perché i miei familiari mi hanno attaccata». Anche la sua attività lavorativa subisce un drastico cambiamento e nel 1990 Michela è costretta a chiudere il bar che gestiva con il marito, rimasto praticamente senza clienti: «Sentendomi colpevole di questa situazione, andai a fare la collaboratrice domestica. Non dicevo mai niente delle minacce che ricevevo, ma quando toccarono i miei figli fui costretta a dirlo a mio marito e in accordo con l’avvocato decidemmo di ritirarci dal processo». Fu una scelta dolorosa, ma da quel giorno Michela promise a se stessa che avrebbe proseguito la propria lotta al di fuori del tribunale, iniziando a parlare in incontri pubblici, nelle scuole, facendosi intervistare. Michela entra nell’associazione “Donne siciliane per la lotta contro la mafia” e in Libera, dedicando tutte le sue forze a testimoniare la necessità di ribellarsi alla violenza e raccontandosi nel libro “Nonostante la paura”: «Ogni parola mi è costata molto, perché in ogni parola c’è il mio cuore».
Oggi Michela non vive più a Palermo, ha cinque figli e sente ancora il bisogno di girare per l’Italia a raccontare la sua storia di libertà: «Libertà è una bella parola, libertà di vivere, di amare, di giustizia, di lavoro, di sognare un’Italia nuova e pulita. Ognuno di noi può combattere la mafia partendo dalle cose più piccole, comportandosi bene e lealmente, senza mai accettare compromessi né cercare raccomandazioni. Perché la mafia è un fenomeno umano, come diceva Giovanni Falcone, e come tutti i fenomeni umani ha un inizio e avrà anche una fine».