Il cretino. Questa è la mafia.
<<‘Signor Coppola, che cosa è la mafia?’ Il vecchio, che non è nato ieri, ci pensa su e poi ribatte: ‘Signor giudice, tre magistrati vorrebbero oggi diventare procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo gode dell’appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino, ma proprio lui otterrà il posto. Questa è la mafia.’>> (Giovanni Falcone-Marcelle Padovani Cose di cosa nostra). La citazione da Frank Coppola può essere applicata a tutti coloro che ricoprono cariche alte grazie alla “intercessione mafiosa”.
Dove comanda la mafia vince il cretino: sarebbe il faro da tener sempre acceso a guidare le riflessioni sulla pericolosità e incidenza della mafia nel tessuto sociale. Il cretino inteso come idiota, nel senso etimologico di questo termine: l’uomo considerato inetto a partecipare alla cosa pubblica, ma che vi partecipa grazie al sostegno dei mafiosi. Perché il cretino è innocuo, farà senza batter ciglio ciò che gli viene detto e lo farà senza chiedere nulla in cambio. Colpisce la profondità di una simile osservazione per le ripercussioni concrete che essa ha nella società: si pensi a quante inefficienze e inadempienze burocratiche, amministrative, politiche sono imputabili al fatto che alla gestione di tali funzioni sia preposta una persona inetta alle stesse. Ciascuno può intuire le concrete conseguenze. E forse, anzi sicuramente, su ciascuno di noi almeno una volta ha gravato il peso di tali conseguenze.
Il controllo del territorio. La mafia si vive come Stato.
Il concetto di controllo del territorio è racchiuso nella definizione di una mafia che si vive come Stato. “Si vive”, non che lo sia, naturalmente, poiché di Stato ce n’è uno solo. Ma tanto basta a darle la forza necessaria.
Che la sovranità territoriale sia la prerogativa privilegiata dalla mafia lo dimostrano le sue stesse origini: nasce come fenomeno tipico del latifondo, nasce dalla terra e sulla terra, nasce radicata in una terra che conosce bene, all’interno di un modello di gestione del territorio, quello latifondista, che delinea fin dalle origini i rapporti di forza e le gerarchie tra manovalanza semplice (i campieri) e il vertice (il gabellotto, che opera in vece del proprietario terriero e che si serve dei campieri per esercitare i soprusi sul contadino).
Questo legame inscindibile col concetto di Stato è evidente ancora scavando nelle origini della mafia: la mafia nasce e definisce i propri contorni come anomalia rispetto al neonato Stato italiano, quindi nasce dalla consapevolezza del contrasto rispetto ad un sistema sociale appena nato, quello del moderno Stato liberale. Questo ci riconduce al concetto che la mafia è un vero e proprio modello di società. Anzi, come modello alternativo allo Stato, è definibile come forma di esercizio del potere che s’esprime attraverso una società dotata di quattro requisiti peculiari: controllo del territorio, rapporti di dipendenza personale, violenza come regolatrice dei conflitti e rapporti organici con la politica. Essa stabilisce rapporti di convivenza, conflittualità o integrazione con gli altri ordinamenti presenti sullo stesso territorio; ed è in grado di elaborare una sua precisa cultura che spesso trova sponde significative anche all’esterno dell’organizzazione (basti pensare in letteratura alla lettura della mafia come brigantaggio, cioè come fenomeno di riscossa e ribellione popolare ai soprusi del potere. Lettura che distorce la prospettiva corretta secondo cui la mafia è invece la ribellione di un potere-illegale-contro un altro potere-legale-quello dello Stato di diritto).
Dimenticare il fattore “controllo del territorio” porta a errori di valutazione. La mafia nasce come forza sociale e politica: Franchetti, nella sua illuminante relazione sulla situazione siciliana negli anni ‘70 dell’800, identifica nel “timore di disapprovazione pubblica” una delle più grandi forze della mafia. L’osservazione ci riporta al dato che la mafia non ha come obiettivo primario quello di far soldi ma di controllare il tessuto sociale di un dato territorio, e se ciò significasse anche rinunciare al denaro o ad altri aspetti non importa. Esemplificativa è la massima “megghiu cumannari ca futtiri”. Ecco che dimenticare tale requisito significa non avere gli anticorpi per combatterla. Il caso della Lombardia insegna: si è pensato che la mafia si sarebbe limitata ai circuiti economici rimanendo estranea alla società settentrionale, ritenuta tessuto sano e immune. Si è fatto un grossolano errore di valutazione.
Il primato del controllo del territorio è anche la spiegazione del perchè, nonostante le enormi liquidità ormai accumulate, le organizzazioni criminali non smetteranno mai di far pagare il pizzo, ossia quell’attività tradizionale che esprime e rende visibile ed effettivo il controllo del territorio.
Tutte le attività che garantiscono tale sovranità sono papabili: la ‘ndrangheta a Milano, e non solo, punta al controllo di alberghi e locali di lusso; le discoteche in primis perché lì si riuniscono gli esponenti più in vista della società, i quali vengono così monitorati e studiati nei loro comportamenti, gesti, parole. Una promiscuità essenziale alla mafia per comprendere come relazionarsi con l’interlocutore (avvocato, medico, professionista) con cui dovrà fare accordi.
E colpisce il legame tra il requisito di sovranità territoriale e quello della creazione di rapporti di dipendenza personale. I legami in questione si creano sul territorio, conoscendolo, studiandolo a fondo. L’aspetto più rilevante in questo caso è la trasformazione dei diritti in favori, che porta chi riceve il favore a vivere come personale il debito con il proprio benefattore, al punto che di fronte a ciò ogni giudizio che rimandi al profilo pubblico della persona passa in secondo piano; scatta quel meccanismo psicologico che porta a dire “se mi ha dato lavoro e mi ha aiutato è una brava persona”. Questo punto porta a riflettere sulla capacità della mafia di intromettersi e coprire le falle dello Stato di diritto, compensarne le mancanze, ascoltare con attenzione, cogliere, accogliere e soddisfare i bisogni della gente comune. Fatto che produce legittimazione a livello sociale e culturale. Ecco perchè la mafia privilegia l’infiltrazione al livello della pubblica amministrazione, là dove può esercitare potentemente la forza che le deriva da tale risorsa di dipendenze personali.
La colonizzazione della ‘ndrangheta in Lombardia. Alle radici del problema: tra modernità e arretratezza.
Un terzo spunto di riflessione è legato alla pervasiva espansione della ‘ndrangheta in Lombardia. Qui i paradossi si sprecano: com’è possibile che la più giovane tra le organizzazioni abbia raggiunto un livello di forza tale da colonizzare la regione più ricca d’Italia? E come possono uomini provenienti da aree ad economia agro-pastorale colonizzarne altre molto più ricche e sviluppate? Come può muoversi con destrezza su grandi circuiti finanziari un’organizzazione che si basa sulla famiglia, sul legame parentale e che si preoccupa ancora di rinsaldare tali legami con matrimoni prestabiliti?
Tra modernità e arretratezza: la ‘ndrangheta ha saputo meglio delle altre organizzazioni mettere a frutto le risorse che derivano da entrambi i poli. Ma soprattutto ha saputo giovarsi negli anni ’90 della fase in cui Cosa nostra ha sferrato il terribile attacco frontale allo Stato uscendone devitalizzata, indebolita.
Ma il “cono d’ombra” del quale s’è giovata è stato soprattutto mediatico, culturale. L’informazione è stata manchevole. Ma la società tutta ha sottovalutato la capacità della ‘ndrangheta di mettere radici in un contesto diverso da quello d’origine, con la presunzione di pensarsi immune.
Tra modernità e arretratezza, s’è detto, e in effetti la ‘ndrangheta ha avuto la capacità di trasferire in toto in Lombardia il modus operandi adottato in Calabria, senza mai perdere il legame viscerale con la madrepatria. La regione dell’economia agro-pastorale che colonizza la regione dei grossi flussi di capitali, appunto.
E’ necessario scavare a fondo, fino a scovare le radici: comprendere le tradizionali risorse dell’organizzazione mafiosa, conoscere e studiare i requisiti che la caratterizzano tradizionalmente, analizzarne persino i riti e le usanze più arcaiche è in realtà l’unico modo per comprenderne la pericolosità anche in territori diversi da quelli d’origine. Lombardia docet.