di Claudio La Camera e Ambros Weibel
Dopo un anno dalla cattura di Matteo Messina Denaro, siamo andati a Palermo a incontrare vecchi e nuovi protagonisti della lotta antimafia. L’ex magistrato Leonardo Guarnotta, ci ha accolti nella sala del consiglio della Fondazione Falcone, una sede confiscata alla mafia a Palermo, dove svolge attualmente il ruolo di segretario generale. Dopo la pensione, il dott. Guarnotta dedica il suo tempo a parlare di legalità con i giovani, a partecipare a conferenze e dibattiti con la società civile, consapevole del fatto che la
repressione, da sola, non è sufficiente a sconfiggere la mafia.
Gli anni bui delle stragi sono finiti. Non c’è dubbio che è stato inferto un grosso colpo a Cosa nostra, e c’è stato anche l’arresto di Matteo Messina Denaro. Possiamo dire che Palermo è finalmente una città
libera come altre città europee?
Si sta avviando verso la libertà. Certamente dobbiamo ringraziare il sindaco uscente, Leoluca Orlando. Anche il nuovo sindaco eletto è una persona perbene che io conosco da quando era Rettore all’università e con il quale condividiamo la comune passione per il calcio. Infine abbiamo un Procuratore della Repubblica come Maurizio de Lucia che è un magistrato in gamba che crede nel suo lavoro.
E la società civile?
Certamente, non c’è dubbio che la città è cambiata. Un tempo, nei processi di mafia, neppure i familiari delle vittime si costituivano parte civile, per paura di ritorsioni. Subito dopo le stragi qualcosa è cambiato, la gente ha cominciato a capire che non poteva stare in mezzo al guado, che doveva scegliere. Bisognava uscire dal guado e schierarsi. Tuttavia se ci sono ancora imprenditori che pagano il pizzo o che cercano la protezione della mafia significa che c’è ancora molto da fare. Rimane una parte della società palermitana a cui piace stare vicino a persone in odore di mafia. Un paio di anni fa si sono svolte le elezioni per la nomina del sindaco di Palermo. Ebbene nessuno ebbe a dire qualcosa sul fatto che la campagna elettorale era stata guidata da due condannati per mafia: Totò Cuffaro, condannato a pena definitiva e scontata per favoreggiamento alla mafia e il Senatore Marcello Dell’Utri condannato dal Tribunale da me presieduto. Un processo che è durato sette anni e durante il quale avevo anche sentito Silvio Berlusconi, il quale si è avvalso della facoltà di non rispondere. Io gli dissi che stava perdendo un’occasione unica nei confronti degli italiani che lo avevano votato…
Come spiega questa vicinanza della gente a politici discussi?
Non saprei, anche io me lo sono chiesto. Magari si può spiegare pensando che la causa sia l’insoddisfazione dal punto di vista politico, cioè la gente non trova una risposta ai propri problemi e forse ritiene più credibile la mafia. O forse perché è qualcosa di inveterato in noi.
A cosa attribuisce questo schieramento della gente che non si vergogna di stare accanto a due condannati per mafia? È un problema di credibilità dello Stato o a una riemersione della cultura mafiosa?
Io penso all’uno e all’altro caso. Ai nostri tempi solo una minima parte delle istituzioni era al nostro fianco. Si è visto con la mancata nomina di Giovanni Falcone a consigliere istruttore. Ad un certo punto, dopo che Paolo Borsellino si trasferì a Marsala come Procuratore della Repubblica, io occupai il suo ufficio quindi iniziai a lavorare insieme a Giovanni. È capitato diverse volte che mentre lavoravamo in
silenzio, Giovanni mi diceva “Leonardo, vedi che si è fatto tardi. Leviamo il disturbo allo Stato”. Era una delle sue battute più frequenti; nel tempo capì perché mi diceva questo, era una frase profetica… E infatti, come si è dimostrato dopo 39 giorni della sentenza della Corte d’Assise del 16 dicembre del 1987, il CSM fu chiamato a rispondere se quella strategia vincente dello Stato nei confronti di cosa nostra dovesse continuare. Dopo quella condanna con 19 ergastoli e 2665 anni di carcere il
CSM mise la parola fine a quell’esperienza diretta da Giovanni Falcone. Fu come averci detto: “Basta vi siete divertiti, vi siete regalati il maxi processo ma ora basta”.
Quando nel 1988 Antonino Caponnetto lasciò l’incarico per limiti di età, il CSM decise di nominare Antonino Meli. Era certamente un galantuomo e un magistrato in gamba ma aveva creato un metodo che era esattamente agli antipodi di quello di Chinnici e Caponnetto. L’idea geniale di Rocco Chinnici, fatta propria dal consigliere Antonino Caponnetto, era stata quella di creare un gruppo di lavoro che dialogava e condivideva le informazioni; quattro giudici che lavoravano tutti insieme in modo che le informazioni girassero solo fra di loro. Cambiando metodo il pool si è disgregato.
Quando è iniziata veramente la guerra alla mafia?
Lo Stato non ha mai dichiarato apertamente guerra alla mafia; la guerra è stata condotta dal pool antimafia. Questa è la verità ed è forse per questo che a Palermo ci troviamo ancora in questa situazione. Certamente non ci sono più gli omicidi che c’erano una volta ma se si continua a pagare il pizzo significa che c’è ancora il controllo del territorio. Ricordo un interrogatorio a un capomafia che aveva iniziato a collaborare; gli chiesi come mai avevano chiesto il pizzo a un giovane che stava per aprire il negozio ma non aveva ancora iniziato a lavorare e a guadagnare . E lui mi rispose: “Perché stava per aprire un negozio nel mio territorio!”. Nel mio territorio? Come lo Stato chiede di pagare la licenza, loro, in quel territorio che considerano appartenente alla famiglia, avevano chiesto il pizzo a titolo di licenza. Ogni rione ha una famiglia, si chiama così perché tra di loro ci sono anche vincoli di sangue. Due o tre famiglie compongono un mandamento e il capo mandamento fa parte della commissione provinciale. Sappiamo questo grazie a Tommaso Buscetta e alle indagini del pool. Ci tengo molto a precisare che noi non ci siamo serviti di un codice penale speciale. Noi abbiamo lavorato con il codice penale vigente. Non abbiamo avuto bisogno di leggi speciali. Inoltre, ognuno di noi aveva il suo credo politico: io e Giovanni
eravamo di centro sinistra, Paolo Borsellino era di destra e Peppino di Lello era di Rifondazione comunista. Nessuno dei nostri provvedimenti è stato visto attraverso la lente deformante del credo politico.
Quando e perché decise di entrare nel pool antimafia?
All’inizio io non facevo parte del pool antimafia. Ero arrivato a gennaio del 1980 e già si era formato questo gruppo formato da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Peppino di Lello. Nell’ aprile del 1984 mentre ero nel mio ufficio adiacente a quello che chiamavamo il “bunkerino” mi chiamò il consigliere
Antonino Caponnetto e mi propose di entrare a far parte del gruppo. “Abbiamo bisogno di aiuto per scavare in questa montagna di lavoro”. Bisogna tenere conto che l’uso del computer l’abbiamo scoperto quando siamo andati per la prima volta negli Stati Uniti. Ho preso un paio di giorni per parlare con mia moglie; avevo due ragazzi in età adolescenziale e una sera dopo cena mia moglie mi chiese se avevo deciso cosa fare perché vedeva che ero interessato. Mi disse: “Cosa aspetti? Fallo come magistrato e come siciliano”.
E così accettai l’incarico, perché il fine del nostro lavoro era soprattutto quello di restituire la Sicilia ai siciliani onesti.
Qual è stato il segreto del successo del pool antimafia?
Il segreto del pool è che funzionava come una squadra: tutti per uno e uno per tutti. Non c’erano gelosie fra di noi e non c’erano smanie di protagonismo, ognuno di noi sapeva quale fosse il suo compito e lo assolveva in pieno. Tutto è cominciato con il processo Spatola e altri, un grosso traffico di stupefacenti tra Palermo e New York, con cinque famiglie mafiose coinvolte (Genovese, Gambino, Lucchese, Profaci e Bonanno). Indagando su questo traffico di stupefacenti, Giovanni Falcone aveva compreso che ormai
indagare soltanto in Sicilia era riduttivo e fuorviante. La morfina proveniva dalla Turchia, veniva raffinata a Palermo, venduta negli Stati Uniti e il ricavato veniva riciclato in Svizzera; erano coinvolte quattro nazioni. La droga non lascia segni se non negli effetti causati a chi la assume però gli ingenti proventi del traffico di droga lasciano molte orme che portano nelle banche-lavanderia di alcuni paesi. Mi è capitato di interrogare delle persone per capire se si conoscevano fra di loro. allora io chiamavo il soggetto A e gli
chiedevo se conoscesse il soggetto B. E mi riferiva che non lo conosceva. Il giorno dopo B riferiva che non conosceva il soggetto A. Allora io tiravo fuori degli assegni dal cassetto firmati da A a beneficio di B. I soldi lasciano sempre tracce.
Lei pensa che le persone possano cambiare?
La mia vita oggi è andare a parlare ai giovani di legalità. I giovani sono il nostro futuro e la nostra speranza. Dedico il mio tempo a parlare con loro, con chi sta per entrare nella vita; non ha senso che parli con gli anziani. Rocco Chinnici è stato il primo magistrato che è uscito dal palazzo di giustizia
per andare a parlare di mafia. Lui sosteneva sempre che “un magistrato non è un uomo separato dalla società”. Perché è importante l’educazione alla legalità? Perché per combattere la mafia bisogna conoscerla. E quindi bisogna parlarne.
La mafia esiste ancora oggi?
La mafia purtroppo esiste ancora oggi, 32 anni dopo la morte di Giovanni e Paolo. Dopo il clamore della notizia dell’uccisione dei colleghi, la Procura della Repubblica era smarrita, non sapevamo come sarebbe andata a finire, e c’erano 300 morti l’anno, almeno quelli ufficiali. La città era smarrita come se fosse in uno stato di guerra. Adesso siamo sopravvisuti solo io e Peppino di Lello. Speriamo di poter vedere che le cose siano cambiate, prima di chiudere gli occhi…