In Bicocca il secondo appuntamento del ciclo di incontri organizzato da Libera e dalle università milanesi sul tema delle mafie al Nord. Si discute della loro fenomenologia e dei mezzi di contrasto.

L’aula gremita di giovani. E’, significativamente, un’aula di Giurisprudenza. Studenti oggi, professionisti del diritto domani. Prendere coscienza dei mezzi di lotta alla mafia è una tappa obbligata nel viaggio della conoscenza per giovani che in questa regione si affacceranno presto al mondo del lavoro.

L’attacco in medias res spetta a Serena Uccello, giornalista del Sole 24 ore. Luglio 2008, in un bar di San Vittore Olona entrano due uomini a volto scoperto, sparano in faccia a Carmelo Novella, poi fuggono con la stessa naturalità con la quale il Novella beveva il suo caffè. Novembre 2009, a San fruttuoso viene trovata sciolta in oltre 50 chili d’acido Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia. Che l’interpretazione di questi episodi sia una conquista recente la relatrice lo spiega con le parole usate dal Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Pignatone in una lettera pubblicata al Corriere: “Comincia così a essere squarciato quel cono d’ombra che (…) ha nascosto per decenni la criminalità organizzata calabrese.” La ‘ndrangheta al Nord c’è sempre stata eppure “la fine del cono d’ombra” è acquisizione recentissima e coincide con l’attenzione crescente che il mondo dell’informazione inizia a dedicare al tema. Nella lettera Pignatone menziona gli effetti dell’operazione Infinito del luglio 2010, con i suoi 300 arresti tra Lombardia e Calabria, che hanno evidenziato come la ‘ndrangheta abbia operato una vera “colonizzazione” in alcune zone del Nord. Si torna allora alla domanda principale: come si è arrivati a questo punto? La risposta è affidata al procuratore di Milano Romanelli, dal 1992 al 2000 in prima linea nel contrasto alla mafia. Il tono del dibattito si fa complesso, entrando nel vivo di questioni giuridiche. Gli anni ’90 furono uno snodo cruciale: le stragi di Capaci e via d’Amelio nel ‘92, il ’93 con la “strategia delle stragi” portata fuori dalla Sicilia (Firenze, Roma, Milano). A Milano gli addetti ai lavori da tempo sapevano della presenza delle organizzazioni criminali ma ogni volta che la magistratura tentava di fotografare il fenomeno mafioso usando il 416 bis si andava incontro a sentenze di assoluzione, fermandosi a leggere certi episodi come atti di delinquenza urbana (basti pensare al caso emblematico di Angelo Epaminonda, la cui banda negli gli anni ’70-’80 aveva insanguinato Milano). In forza di tali sentenze alle soglie degli anni ’90 c’era chi si sentiva ancora legittimato a dire “al Nord la mafia non esiste”. Poi la svolta nel ’92: da allora fu continuamente documentata attraverso i processi la presenza in Lombardia di tutte le organizzazioni criminali. Si ottennero importanti risultati grazie ad alcune riforme legislative: istituzione di DDA, DIA e Direzioni Distrettuali Antimafia; forte rigore sanzionatorio e, sul versante opposto, legislazione premiale spinta (in particolare per i collaboratori di giustizia); trattamento privilegiato per le indagini di mafia (la possibilità, ad esempio, di servirsi di tutti i tipi di intercettazioni: ambientali, telefoniche, telematiche).

L’ultimo intervento spetta al prof. Rocco Sciarrone che sposta il dibattito sul piano sociologico ed esordisce con l’intento di offrire ai presenti non tanto delle risposte ma una serie di chiavi di lettura.

Inizia analizzando alcune interpretazioni che nei decenni sono state date del fenomeno mafioso. Nella cosiddetta tesi della “non esportabilità” è insito il vizio di forma che sta nel confondere la mafia col suo contesto d’origine. Ecco insinuarsi il pericoloso luogo comune della mafia come mentalità. Fallace anche il concetto di “contagio”, che suggerisce l’idea della fenomeno mafioso come “malattia che infetta un tessuto sano”. Al contrario, “se proprio di contagio si vuol parlare”, sottolinea Sciarrone provocatoriamente, “allora conta molto il terreno su cui si sviluppa l’infezione”. E prosegue evidenziando che un territorio caratterizzato da una situazione di generalizzata legalità debole e da un’economia d’intermediazione è terreno ottimale per i mafiosi, “specialisti di mediazioni e relazioni”, che puntano ad intrecciare rapporti privilegiati con le classi dirigenti, specie locali. “Ma allora” continua Sciarrone “esistono dei fattori di vulnerabilità?” Basti pensare all’efficace azione delle forze dell’ordine o all’aumento della competizione nei mercati legali. Di primaria importanza è anche il fatto che alcune attività illegali siano diventate più rischiose per la concorrenza con altri gruppi criminali e per l’azione delle agenzie di contrasto, oggi efficace nelle aree d’origine. “Proprio quest’ultimo” sottolinea il relatore “è il motivo per cui pare sia diventato più facile per la criminalità organizzata investire al Nord là dove la politica e la società civile sono meno attente e attrezzate per decifrare la presenza mafiosa.” Un tono di marcata denuncia riecheggia nelle parole del relatore che riesce a catalizzare l’attenzione del pubblico nonostante siano ormai trascorse più di due ore dall’inizio del dibattito. Alza il volume della voce e scandisce senza mezzi termini l’ultimo, fondamentale concetto: “queste circostanze hanno obbligato i mafiosi a trasferire in aree diverse dalle tradizionali le loro modalità d’azione. La ‘ndrangheta, la più capace a rispondere a tale esigenza, ha raggiunto rapidamente questo risultato in alcune zone del Nord rinsaldando i propri legami interni, dotandosi di strutture di coordinamento dove sono stabiliti criteri accertati di riconoscimento per gli appartenenti. Ma soprattutto facendosi forza dell’aumentata disponibilità dei soggetti esterni, della ricettività del contesto. Molti sono infatti gli imprenditori settentrionali che aspirano a trasformare i vincoli in opportunità”, spiega Sciarrone in un concitato fiume di parole che travolge i presenti, “essi hanno compreso che in fin dei conti fare affari con la ‘ndrangheta è piuttosto conveniente e spesso sono loro stessi a cercarne la collaborazione”. La conclusione del sociologo è un monito perentorio e non lascia spazio a dubbi: indagare bene i rapporti con l’economia legale (aree grigie), in particolare il settore creditizio, è il primo passo da fare se si intende seriamente progettare e realizzare una vera strategia di contrasto alle mafie.

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