di Erica Ravarelli
Il copione ormai lo conosciamo: si parte con le intimidazioni, gli avvertimenti, le minacce, e poi si passa alle maniere forti. Sono i corsi e i ricorsi della storia, è quello che è accaduto e sta accadendo in Ucraina. Un’”operazione militare speciale” è la definizione che Putin ha dato a quella che di fatto è una guerra, annunciata nei giorni che hanno preceduto l’invasione e iniziata nella notte tra il 23 e il 24 febbraio scorsi. Quello che sta accadendo in un paese che credeva di aver conquistato la sua indipendenza nel 1989 rievoca i ricordi di chi quelle sirene e quelle città distrutte le ha viste di persona, non più di settant’anni fa. Per quelli che non c’erano, ci hanno pensato i libri di storia a insegnare che le guerre, oggi, le combattono tanto i soldati quanto i civili, e ci stanno pensando i giornalisti, con le loro telecamere e i loro sacrifici, a raccontare il disastro umanitario che sta colpendo l’Ucraina. Mai come in questo periodo ci stiamo rendendo conto di quante cose preziose tendiamo a dare per scontate, e di quanto sia sbagliato farlo. Non è facile ammettere che quella della pace in Europa era solo un’illusione, come l’ha definita il Presidente nel Consiglio Draghi nel suo discorso al Senato, mentre il ritiro dei giornalisti Rai dal suolo russo mette in discussione il nostro diritto di ricevere notizie imparziali su ciò che sta accadendo alle porte dell’Europa. Se fosse ingenuità, egoismo o ignoranza è difficile da stabilire, ma molti cittadini europei erano abituati a vedere le limitazioni della libertà di stampa e le guerre a suon di bombe come qualcosa di lontano da sé, ed è così che, oggi, le immagini di un paese martoriato dal conflitto arrivano come una doccia fredda sui nostri giornali, sulle nostre tv e sui nostri social.
A dieci giorni dallo scoppio del conflitto, il rischio è che l’abitudine possa sostituirsi allo sconcerto, che i servizi e gli articoli sulla guerra in Ucraina diventino la nostra normalità e che la legge del più forte finisca per regolare lo svolgimento e la conclusione del conflitto armato. Difficile dire quale sia la migliore strategia per evitare che questo accada, certo è che se dal conflitto russo-ucraino possiamo ricavare una lezione di cui fare tesoro, questa probabilmente si intitolerebbe “l’importanza di garantire l’indipendenza e la libertà della stampa”. È notizia degli ultimi giorni, infatti, che in Russia diverse emittenti straniere e numerosi social sono stati oscurati con l’accusa di diffondere notizie false sull’invasione dell’Ucraina e di incoraggiare le proteste. E se questa propaganda dovesse trovare terreno fertile, di certo la posizione di Putin ne uscirebbe rafforzata. Ecco perché, oggi più che mai, è importante ricordare che troppo spesso le limitazioni della libertà di opinione e di espressione del dissenso degenerano nell’erosione di quei meccanismi che caratterizzano e permettono la sopravvivenza dei sistemi democratici, ed è di conseguenza fondamentale ricordare che, se esistono giornalisti che hanno sacrificato la loro vita pur di non rinunciare a raccontare la verità, le loro storie sono anche le nostre, perché è grazie al loro sacrificio che il nostro inderogabile diritto di sapere quelle verità non è stato violato.
Sull’importanza di garantire e sostenere un giornalismo indipendente si è espresso lo scorso primo marzo il presidente della Commissione nazionale Antimafia Nicola Morra, il quale, durante un incontro con alcuni giornalisti e rappresentanti delle istituzioni a Caltanissetta, ha rivolto un appello alla società nissena, dichiarando: «Credo sia importante far emergere la necessità, in una società impregnata da reticenza ed omertà, di sollecitare il giornalismo autentico a schierarsi. Ma questo può avvenire soltanto quando c’è una società civile altrettanto votata alla denuncia, all’indignazione e all’assunzione di valori di giustizia e legalità». Tradotto: perché la verità venga raccontata c’è bisogno sia di narratori rigorosi che di ascoltatori esigenti, c’è bisogno che la società tutta non si pieghi alla legge del più forte. Una legge che la Russia di Putin oggi sta tentando di applicare in Ucraina, scontrandosi con la resistenza di chi non intende subire in silenzio. È una resistenza, quella del popolo ucraino, che ci ricorda altre forme di ribellione, da quella di Libero Grassi a quella di Antonio de Masi, da quella di Giuseppe Fava a quella di Daphne Caruana Galizia. Si tratta di pochi esempi, significativi ma certamente non esaustivi, che possono servirci come un modello da seguire, consapevoli che fare la nostra parte significa innanzitutto rivendicare il nostro diritto alla verità e rifiutarci di accettare quelle vessazioni che i regimi dittatoriali e, analogamente, quelli mafiosi, vorrebbero imporre.