Alla notizia della cattura di Matteo Messina Denaro ho pensato d’istinto tre cose. La prima è che, quando lo Stato vuole, non esistono gli imprendibili e tanto meno gli invincibili. La seconda è che l’hanno preso i Ros dei Carabinieri e non potevano prenderlo che loro. La terza è che il rapporto tra mafia e sanità esiste, eccome se esiste. Neanche dieci secondi per pensarle tutte e tre. Una specie di fiotto liberatorio, nella mente e nel cuore.
La storia di Messina Denaro è un riassunto della mafia trapanese. La sua famiglia, di schietto lignaggio mafioso, fu nelle grazie intime di una delle più potenti dinastie (in economia, in politica) della provincia di Trapani, a sua volta impermeabile all’antimafia per definizione. Un rapporto di alleanza stretta con i corleonesi, un retroterra di consensi capillare, una spiccata intelligenza delle dinamiche mafiose e imprenditoriali sul territorio. Messina Denaro ha fatto parte della prima generazione di boss amanti del denaro e del lusso ostentato.
Mentre la storia della sua latitanza è un riassunto della storia dei rapporti tra mafia, borghesia mafiosa e Stato. Ci sarà modo per indagarla, per scandagliarla. Intanto però è finita. È secondario sapere se si sia consegnato per calcolo, come già si insinua. Chi si consegna (fosse pure in cambio di qualcosa) si considera comunque uno sconfitto. È come il bandito o il terrorista circondato che esce dal suo rifugio a mani alzate. Ma è significativo che una intera opinione pubblica (quella che “non la beve”…) si sia scatenata in poche ore con ipotesi e contro-ipotesi.
Vige il principio che lo Stato non può mai vincere “pulito”. Anzi, non può mai vincere davvero. “Ora qualcuno avrà già preso il suo posto”, sento dire. Come lo sentivo dire già quaranta, trent’anni fa. Che fesseria stratosferica. Come se fosse meglio non prenderli, i latitanti. E soprattutto come se un grande boss fosse la stessa cosa di un capoufficio. Perfettamente sostituibile. E non un insieme complesso e difficilmente replicabile di biografia, sapienza criminale, esercizio della violenza, sistema di fedeltà personali, di relazioni istituzionali e imprenditoriali.
Insomma, godiamoci questa vittoria che mette fine alla leggenda dell’imprendibilità, e che chiude l’ultima (importante) coda di un pezzo di storia di mafia, quella stragista, sostanzialmente già finita con l’arresto di Provenzano. Poi setacceremo tutte le informazioni credibili per capire contorni e concause ed eventuali contropartite. E apprezziamo, sempre intanto, il lavoro sistematico dei Ros, di chi non si è mai arreso all’idea che la latitanza di Messina Denaro facesse parte del paesaggio. E che a ogni seminario o convegno recente annunciava nello scetticismo generale, “siamo sulle sue tracce, lo prenderemo”.
L’hanno preso per davvero, e davvero -come ha detto il comandante generale dei Carabinieri- con “il metodo dalla Chiesa”. Ovvero con un coordinamento centralizzato di indagini ad amplissimo raggio. Anche su questo riflettiamo, su quanto ci sia voluto in tempo, ostilità, fatiche, per rendere alla fine quel metodo “normalità” dell’efficienza dello Stato. Ma riflettiamo soprattutto sul rapporto tra mafia e sanità. Perché in prospettiva è su di esso che occorre indagare, mettere la lente di ingrandimento. Le cure prestate per mesi sotto falso nome al latitante numero uno della Repubblica hanno qualcosa di incredibile. Ma non sono un incidente di percorso, sono invece una ulteriore tessera di un rapporto sviluppatosi nella storia e nello spazio, ossia sul territorio nazionale. Un rapporto su cui la stessa Università Statale di Milano e il suo centro di ricerca CROSS hanno scritto più volte, prendendosi responsabilità che altri non si sono presi. Fino a promuovere, anni fa, una intera Summer School su “Mafia e Sanità”. A Milano, non a Palermo. Insomma, ancora una volta, invece di cercare affannosamente nei cassetti dei misteri, ragioniamo su ciò che già sappiamo con certezza, su ciò che la realtà ci ha squadernato davanti. Evitiamo che, una volta di più, per usare il linguaggio del Piccolo principe “l’essenziale” sia “invisibile agli occhi”.