La figlia di Alessandro Rovetta, Marialuisa

di Beatrice Botticini Bianchi

Lunedì 13 marzo si è tenuto presso il bene confiscato Mamme a scuola (via Varesina 66, Milano) l’incontro-testimonianza con Marialuisa Rovetta, figlia di Alessandro Rovetta, avvocato e imprenditore bresciano ucciso il 31 ottobre 1990 a Catania. Il presidio di Libera Lea Garofalo ha organizzato l’incontro inserendolo nel palinsesto di eventi in previsione del 21 marzo, Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.

Marialuisa Rovetta è tra i più giovani famigliari di vittime innocenti della mafia, non ha nemmeno 35 anni: aveva solo due anni quando suo padre perse la vita. Il nonno aveva deciso di trasferirsi da Brescia a Catania per investire in un impianto siderurgico. Alla sua morte avvenuta a fine anni ‘80, il padre, Alessandro, lascia la professione di avvocato penalista e subentra nelle Acciaierie Megara come amministratore delegato. Da subito si accorge di dinamiche poco chiare nella gestione degli appalti e dei dipendenti, e decide quindi di allontanare il responsabile. Al suo posto assume Francesco Vecchio, che verrà poi ucciso nello stesso agguato a ottobre 1990, in seguito a mesi di minacce. Ad oggi non si è svolto un processo, ci sono tre piste ancora aperte e la procura di Catania ha richiesto per la terza volta l’archiviazione per mancanza di prove, a cui le famiglie si sono opposte.

“Non so se arriveremo a un verdetto finale, tantomeno a un processo. Ma per me fare giustizia significa anche costruire un pezzo di memoria in ciascuno di voi che mi ascolta. Vi chiedo di aprire la porta del cuore e del ricordo per mio padre e per tutti quelli assassinati dalla mafia”, afferma Marialuisa a inizio incontro. È impossibile non empatizzare con la sua storia, raccontata con voce diretta e parole forti. “Vorrei raccontarvi di più di mio padre ma non posso, ci sono tante cose che non so. Chiedere di lui ai miei famigliari è difficile, ogni volta si riapre la ferita. Ricordare fa male”. Marialuisa scopre infatti solo da adolescente che il padre era stato vittima di un agguato mafioso. Affrontare questa storia e il dolore che si porta appresso richiede tempo e una forza immensa: “Solo quattro anni fa sono riuscita ad ascoltare per la prima volta il nome di mio padre durante la lettura di Libera dei nomi delle vittime innocenti di mafia del 21 marzo. Lì ho capito che questa storia apparteneva non solo a me, ma anche alla collettività”. 

La volontà di ricostruire il ricordo della figura paterna diventa così un’occasione per condividere la storia di Alessandro con la società, portando la testimonianza anche nelle scuole per mostrare ai ragazzi che la mafia non è lontana geograficamente né tantomeno temporalmente: “Sono i nostri piccoli comportamenti quotidiani a incidere sul contesto in cui viviamo. Voglio trasmettere ai giovani un’idea di giustizia che torni utile nelle loro vite, ogni volta in cui si trovano a dover compiere delle scelte. C’è sempre la possibilità di cambiare”. 

Parole di speranza e fiducia verso il futuro che bilanciano i sentimenti di rabbia e dolore incatenati al passato: la testimonianza di Marialuisa colpisce per la schietta sincerità con cui comunica una personale descrizione della condizione di famigliare di vittima innocente. “Io ho perso non solo mio padre, ma tutta la mia famiglia. Loro sono legati a quel giorno. E io con questo ci devo convivere quotidianamente.” Afferma che quello definisce il suo “zaino” (di ricordi, di dolore, di ricerca della verità) diventa però più leggero se condiviso con altri famigliari di vittime innocenti e con tutte le persone che si ritrovano ad ascoltare la storia di Alessandro Rovetta. 

“Voglio trasmettere l’insegnamento di mio padre: essere coraggiosi. Anche se hai paura, c’è qualcosa di più importante. Ho deciso di affrontare il dolore, voglio far sentire a mio padre che nessuno l’ha abbandonato. Voglio far nascere qualcosa affinché il ricordo di mio papà viva, e la storia sua e di Francesco Vecchio non venga dimenticata.” I cittadini presenti all’incontro applaudono istintivamente, un gesto spontaneo che racchiude in sé gratitudine e affetto per la generosità della condivisione. Idealmente, è il segnale di una comunità presente, disponibile alla costruzione della memoria e determinata a innescare un cambiamento. 

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