di Giulia Chiodini
Era il 13 Aprile 2013 quando spararono 44 colpi di kalashnikov al portone della sua azienda, mettendogli anche 3 proiettili davanti alla porta d’ingresso. Sembra una scena di una fiction, ma non lo è. È una storia invece molto reale e recente, la storia di Antonino De Masi, un imprenditore calabrese originario di Rizziconi (RC), un piccolo centro della Piana di Gioia Tauro. Qui De Masi porta avanti le aziende della propria famiglia, che hanno alle spalle 55 anni di attività e un percorso di continua innovazione e internazionalizzazione, basato su forti principi di legalità (vedi www.demtech.it).
Una dichiarazione di guerra che ha avuto il suo inizio molti anni prima, nel 2001, quando durante la costruzione dei propri stabilimenti, De Masi si oppose alle estorsioni messe in atto dalla famiglia Crea, una delle più feroci e potenti cosche di ‘ndrangheta, denunciandoli. Da quel momento, la sua vita è stata costantemente messa in pericolo, fino a giungere al terribile attentato del 2013. Infatti, da allora, De Masi vive sotto scorta e la sua azienda è presidiata giorno e notte dall’esercito. La sua famiglia è stata allontanata dalla Calabria, ma lui non ha nessuna intenzione di lasciare la sua terra.
Se ci si pensa però, De Masi è “semplicemente” un cittadino che ha fatto e fa il suo dovere, quello che ogni cittadino responsabile dovrebbe fare davanti a un crimine. Intervistato da Stampo Antimafioso, De Masi ha raccontato: “Io sono cresciuto da sempre illuso di essere un uomo libero. Mi sono tornati in mente i film in cui si rappresentava la schiavitù nei paesi del sud degli USA, dove era normale che un padrone avesse il diritto alla vita del suo schiavo, un essere umano. Ho sofferto quei racconti, ho ‘odiato quel mondo’ per poi capire che vivevo anche io in un mondo in cui vi erano dei soggetti (i criminali) che avevano il diritto sulla vita degli altri cittadini. Da questi esempi ho capito di essere uno schiavo anche io e come tale mi sono rifiutato di esserlo, combattendo per la mia libertà.”
De Masi ha deciso quindi di compiere una scelta di libertà e ha denunciato chi cercava di imporre una legge propria, in contrasto con quella dello Stato e basata sull’intimidazione e la violenza. Ma in Italia ancora oggi per compiere questa scelta e denunciare ci vuole coraggio, il coraggio di dire no alla mafia e di pagarne a lungo le conseguenze. E allora forse è dovere di tutta la comunità pretendere che questa scelta sia rispettata e difesa come merita.
Forse si dovrebbe partire riflettendo sul perché le mafie attaccano con così tanta ferocia i testimoni di giustizia. La risposta è semplice: sono la cosa che temono di più, sono lo strumento più efficace per squarciare il velo di omertà che permette alla mafia di agire indisturbata e permeare la nostra società. Ma se sono così preziosi, è normale che debbano poi vivere in queste condizioni? In un paese civile, chi difende la legalità non dovrebbe rischiare la pelle ogni giorno.
Ma Antonino De Masi non vuole essere commiserato. Piuttosto chiede che questo sacrificio fatto per difendere lo Stato e la democrazia, che egli considera “una cosa seria” che merita rispetto, non gravi sulle spalle di pochi, ma che sia invece un peso condiviso da tutta la collettività. E per fare ciò bisogna tornare a parlare di mafia, pubblicamente ed insistentemente. Perché la macchina Stato fa, i processi e le indagini ci sono. Ma questo non basta. La società civile non si indegna e non si parla più di mafia. Questo il grido d’allarme lanciato da De Masi.
Quale è il rischio altrimenti? Che la ‘ndrangheta rialzi la testa, nella pericolosa indifferenza della società civile e assenza delle istituzioni centrali. Questa lotta non può gravare interamente “sulle spalle di procuratori della Repubblica e di Prefetti e di funzionari dello Stato che da soli stanno combattendo una delle più grandi organizzazioni criminali al mondo”, afferma De Masi in un suo intervento al programma televisivo Otto e Mezzo su La7. E neanche sui cittadini onesti della Calabria, terra da cui questo fenomeno ha origine ma che non è mai stata l’unica sede di esso. La Calabria ha già pagato un prezzo altissimo, è una terra in cui si sente la forza di resistenza e la tanta voglia di cambiamento, che deve essere presa di esempio e posta come “generatrice di una rivoluzione culturale”, creando dei ponti con le altre regioni italiane.
“È un falso problema che la mafia è un fenomeno del sud Italia” dichiara inoltre De Masi. Oggi come non mai abbiamo infatti l’evidenza dell’infiltrazione ormai condizionante del fenomeno criminale mafioso nel sistema economico e sociale del Nord, che si è ritrovato “il nemico dentro casa”. La Mafia deve tornare dunque a essere una priorità nazionale, non deve più passare in secondo piano. “Come se ne esce?” si chiede De Masi, “non lo so, certamente parlandone, spiegando che siamo davanti ad un fenomeno criminale che ammazza non solo le persone ma la speranza di ognuno di noi. Stiamo normalizzando la mafia”, rischiando di abituarci ad essa. Solo così si formeranno delle generazioni di ragazzi che avranno le conoscenze e le capacità di ribellarsi, di dire no. E allora forse, di Antonino de Masi ce ne saranno tanti, troppi per i mafiosi e nessun uomo giusto dovrà più vivere sotto scorta.