di Giulia Ferri
27 novembre 1990. Tra le 19.00 e le 19.20 hanno luogo a Gela una serie di quattro agguati che lasceranno sulle strade della città 8 morti e 7 feriti. È questo il più efferato e violento episodio della cosiddetta Faida di Gela, combattuta tra la Stidda di Gela e Cosa Nostra tra il 23 dicembre 1987 e i primi mesi del 1991, che lasciò dietro di sé ben 120 morti. La guerra fu totale: si sparava nelle strade, nelle piazze, nei negozi, tra la folla e arrivò anche al Nord, tant’è che due gelesi vennero assassinati in Lombardia. Il più violento tra gli episodi della Faida, conosciuto come Strage di Gela, fu un regolamento di conti degli “stiddari” ai danni dei fiancheggiatori di Cosa Nostra al soldo del boss Giuseppe “Piddu” Madonia.
Il primo agguato ebbe luogo alle 19, quando quattro sicari entrarono nella sala giochi Las Vegas in via Vittorio Emanuele,e iniziarono a sparare contro i ragazzi presenti nel locale. Le vittime furono tre: Emanuele Trainito (24 anni), Salvatore Di Dio (18 anni), Giuseppe Areddia (17 anni). Tutti e tre sospettati di estorsione. Poco dopo, alle 19.07, in via Tevere si consumò il secondo agguato: vennero scaricati contro una bancarella di frutta e verdura circa 50 colpi. Ad essere colpiti a morte questa volta furono Giovanni Domicoli, il proprietario della bancarella, Nicola Scerra e Serafino Incardona, di 36 e 33 anni, due cognati incensurati che passavano di lì per caso. Più fortunata invece fu la sorte dell’altro proprietario della bancarella, Aurelio Domicoli, che riuscì a salvarsi gettandosi dietro un bancone di ferro.
Trecento metri più a est, in via Venezia, davanti a una macelleria, una terza squadra di stiddari ammazzò a colpi di pistola Francesco Rinzivillo, un commerciante ritenuto dalla polizia “uomo di rispetto”, vicino a Cosa Nostra. Il quarto e ultimo agguato ebbe luogo alle 19.20 in via Butera, vicino al cimitero monumentale, dove venne ucciso con fucili e pistole Luigi Blanco, cognato di affiliati alla cosca del boss “Piddu” Madonia.
La Strage causò un vero e proprio shock a livello locale ed ebbe risonanza anche sulla stampa nazionale e internazionale: ne è un esempio il quotidiano francese Le Monde che si espresse sull’accaduto definendo Gela “Mafiaville”. Lo stato italiano reagì con una stretta: il Ministro degli Interni Vincenzo Scotti dispose subito l’invio dell’alto commissario antimafia Domenico Sica per coordinare la risposta delle Forze dell’Ordine. Inoltre, venne sancita l’istituzione del Tribunale di Gela, che fu poi inaugurato nel 1991 dall’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Alcuni giorni dopo la Strage, grazie ad una soffiata, venne trovato dai carabinieri il covo di Settefarine, da cui erano partiti i sicari e in cui gli stiddari avevano festeggiato la riuscita della strage con ostriche e champagne. È in questa circostanza che venne arrestato uno dei responsabili degli agguati, Carmelo Ivano Rapisarda, che verrà successivamente condannato all’ergastolo. Nel periodo successivo, vennero arrestati anche altri pregiudicati di Gela e Vittoria accusati di essere i killer: Carmelo Dominante, i fratelli Claudio e Bruno Carbonaro, Francesco Di Dio, Salvatore Casano ed Emanuele Antonuccio. Nel frattempo, iniziarono a collaborare con la giustizia Gaetano e Marco Iannì, padre e figlio ex capi della Stidda di Gela. I due si autoaccusarono e rivelarono i nomi degli altri responsabili della strage, che si scoprì essere stata pianificata da una coalizione eterogenea, composta da membri delle principali famiglie stiddare della città, aiutati dai Russo di Niscemi, i Carbonaro di Vittoria e i Sanfilippo di Mazzarino.
Il risultato dell’azione incalzante dello stato fu un accordo tra Cosa Nostra e gli stiddari, che nei primi mesi del 1991 siglarono una pax mafiosa che pose fine alla Faida. Cosa è rimasto oggi dell’accaduto? Il 27 novembre 1990 non è che una data impressa nelle menti di chi ha vissuto quei momenti terribili e, purtroppo, nulla di più. Nonostante l’immediata reazione di cittadini e studenti che aderirono in massa alla mobilitazione indetta da CISL, CIGL e UIL sotto lo slogan “Gela non si ferma”, con il tempo quanto avvenuto è scivolato nell’abisso dell’oblio. La città e le istituzioni hanno preferito dimenticare quegli attimi terribili che hanno valso a Gela la nomea di “capitale della mafia” e “città dei baby killer”, facendo cadere nel dimenticatoio non solo la strage del 27 novembre, ma anni terribili di agguati e omicidi.