Separato da un paravento bianco da coloro che «per tre anni sono stati – così come li ha definiti – la mia famiglia», Carmine Venturino, collaboratore di giustizia dal 31 luglio 2012, si è trovato nel secondo giorno di udienza del processo di secondo grado per la morte di Lea Garofalo a dover confermare le dichiarazioni fatte nei mesi scorsi al pubblico ministero e ad autoaccusarsi del concorso all’omicidio della madre della ragazza che lui stesso dice di amare.
Lo scorso 10 aprile dichiara dunque questo davanti alla corte d’Assise del Tribunale di Milano: «È una scelta d’amore per Denise perché deve sapere come sono andate le cose sull’omicidio di sua madre». Con queste parole Carmine Venturino, nato a Crotone nel 1987 da una famiglia di incensurati, inizia la ricostruzione di tutte le fasi di organizzazione dell’omicidio di Lea Garofalo; dal progetto sventato a Campobasso nel maggio del 2009 fino al giorno, il 24 novembre 2009, in cui la donna viene rapita, torturata e uccisa. Strangolata con un nastro floreale delle tende dell’appartamento di Via Fioravanti, il cadavere messo in uno scatolone e alla fine trasportata in un garage. Lì l’ordine di Carlo Cosco: «La dovete carbonizzare».
Poche parole quelle dell’ex compagno della donna ma soprattutto poche domande, afferma Venturino: «Non si fanno domande nella ‘ndrangheta, significherebbe poca serietà; l’unico commento di Carlo Cosco è stato ‘la bastarda se n’era accorta’». Il collaboratore poi prosegue il suo agghiacciante racconto sulla distruzione del cadavere di Lea Garofalo: «Apriamo lo scatolone e rovesciamo il corpo a testa in giù nella benzina; si intravedevano solo le scarpe. Poi abbiamo buttato la benzina ma il cadavere bruciava lentamente, così mentre il corpo bruciava venivano spaccate le ossa con un badile. Ciò che rimaneva l’abbiamo messo in una borsa e coperto da una lamiera».
Continua poi la sua ricostruzione, raccontando alla corte il recupero degli abiti sporchi di sangue di Carlo Cosco, nascosti vicino al cimitero monumentale e recuperati da Rosario Curcio perché “erano firmati”. Dettagli che, sommati alle altre dichiarazioni, lasciano intravedere lo scenario ‘ndranghetista dentro il quale si è consumato il terribile omicidio: «Lui doveva ammazzare la compagna per le regole della ‘ndrangheta; io non sono un affiliato, sono un contrasto onorato, ho preso parte a questo disegno criminoso perché facevo parte della famiglia, in quanto spacciavo per loro e quindi dovevo loro dei soldi; non potevo dire di no; a Pagliarelle non si muove una foglia che i Cosco non voglia».
E sulla dichiarazione spontanea rilasciata da Carlo Cosco il 9 aprile, alla fine della prima udienza, Carmine Venturino dichiara: «Secondo Carlo Cosco si doveva dovevano uccidere anche Denise; nel processo di primo grado c’è stato un episodio in cui l’avvocato ha mostrato delle fotografie rimaste appoggiate sul banco della difesa e Carlo Cosco quando le ha viste ha detto, ‘ancora davanti a me la metti questa puttana’».
Carmine Venturino ha dovuto riportare tutto quello che ha detto anche nel corso della terza udienza, tenutasi venerdì 11 aprile. In questa giornata la corte ha ascoltato anche altri due testimoni, che hanno definito meglio l’ambiente malavitoso in cui si è consumato l’omicidio di Lea Garofalo.
L’udienza si è infatti aperta con il contro esame da parte degli avvocati difensori, in primo luogo il legale di Carlo Cosco, Daniele Sussman Steinberg. La maggior parte delle domande era mirata ad un unico tema: la ‘ndrangheta. Sussman ha cercato di far cadere le informazioni che Venturino aveva rilasciato riguardo a quell’ambiente malavitoso in cui operava Carlo Cosco. Incalzato dall’avvocato, Carmine Venturino dichiara le doti, i gradi di potere, che avevano i membri della famiglia Cosco. Giuseppe avrebbe il grado di sgarrista, Massimo di picciotto, Vito di camorrista e infine Carlo avrebbe la dote di Santa, facendo così parte della Società Maggiore. Con questa dichiarazione viene quindi sollevata l’ipotesi che non solo l’imputato sia vicino alla ‘ndrangheta, ma che ne ricopra una posizione di rilievo nei vertici. Certo davanti a lui ci sono altre doti, altri gradi, da raggiungere prima di arrivare in cima, ma comunque lui sarebbe un capo zona.
Il collaboratore di giustizia ha quindi chiarito anche alcune dinamiche interne al gruppo degli imputati. «Carlo Cosco era il capo. Rosario Curcio era uno dei suoi soldati. Suo fratello Giuseppe invece era quello più indipendente della famiglia, si occupa dello spaccio di droga». Per quanto riguarda poi la sera dell’omicidio, Venturino afferma ancora l’estraneità dei fatti per Massimo Sabatino, mentre a Giuseppe Cosco attribuisce solo un ruolo organizzativo. «Carlo non è che abbia tutto questo cervello, a preparare tutto quanto, per me può essere stato solo Giuseppe». Sembra infine che Rosario Curcio fosse già sulla lista nera dei Cosco, colpevoli di averli insultati in pubblico. «I Cosco avevano aperto un’impresa edile, la Olimpia srl, che si occupava di cartongesso. Avevano fatto diversi lavori in giro, per esempio a Desio o Buccinasco. Nella ditta c’era anche Curcio, ma lui non aveva preso nemmeno un euro per tutte queste opere. Una sera allora, dopo che si era ubriacato, aveva insultato i Cosco in mezzo al cortile, apertamente. Da quel momento Carlo ha sempre avuto l’idea di ucciderlo».
Venturino non ha risposto a tutte le domande, spesso infatti si è riservato di non parlare perché le informazioni richieste erano coperte da segreto istruttorio. L’ipotesi più probabile è che dalle sue dichiarazioni sia iniziato un altro procedimento penale, che riguarda invece l’usura, lo spaccio e tutte le altre attività criminali dei Cosco.
Il processo è continuato poi con la deposizione di Giulio Buttarelli, tenente colonnello dei carabinieri, che ha riportato l’esito dei sopralluoghi fatti grazie alle indicazioni di Venturino. Ha confermato il ritrovamento di una scheda sim distrutta e poi nascosta in una grata e ha dichiarato anche che dal suo appartamento mancava la corda di una tenda, quella usata per strangolare Lea.
Ultima ad avvicinarsi al microfono è stata Denise. La ragazza si è mostrata subito decisa, disposta a rispondere a qualsiasi tipo di domanda le venisse rivolta. La sua testimonianza è stata breve, ha dovuto solo riconoscere dei gioielli che portava la madre il giorno della sua scomparsa. Questo piccolo esame è servito per identificare ancora il corpo di Lea Garofalo, dato che, per adesso, non si è ancora riusciti ad estrarre il suo Dna dai resti. Prima di andarsene Denise ha però voluto chiarire una cosa. Era stato detto infatti che lei aveva partecipato alla festa organizzata da suo padre Carlo in occasione del suo diciottesimo compleanno. Era il 4 dicembre del 2009, pochi giorni dopo la scomparsa di sua madre. «Io a quella festa non ci sono mai andata, non volevo neanche che la organizzasse. Mia madre era appena scomparsa. Io non avevo niente da festeggiare, forse gli altri sì».
Tramite il suo legale, Carlo Cosco ha infine chiesto di poter testimoniare in aula. Dopo essersi sempre dichiarato innocente fino alla prima udienza del processo di secondo grado, il principale imputato per la morte di Lea Garofalo si siederà per la seconda volta davanti ai giudici.