lea garofaloQuattro ergastoli, venticinque anni di reclusione e un’assoluzione. Così si è chiuso il secondo grado di giudizio per l’omicidio Lea Garofalo, la donna rapita, strangolata a pochi passi dall’arco della pace di Milano e poi bruciata in un capannone a San Fruttuoso, vicino a Monza, tra il 24 e il 25 novembre 2009.

Lea Garofalo lo aveva fatto per lei, per sua figlia Denise. Aveva scelto di lasciare la casa di via Montello a Milano – fortino della cosca di ‘ndrangheta di Petilia Policastro – nel 1996 quando, in seguito all’operazione Storia Infinita, venivano arrestati il fratello Floriano, il compagno Carlo Cosco e Giuseppe Cosco con l’accusa di traffico di stupefacenti. E sempre per Denise aveva deciso nel 2002 di essere testimone di giustizia raccontando agli inquirenti ciò che sapeva sulle faide interne alla famiglia, sugli affari nel capoluogo lombardo, sul traffico di stupefacenti e sugli omicidi.  Lea e Denise, due “piccole” donne di appena diciassette anni di differenza l’una dall’altra, prive di un sostegno economico e costrette a spostarsi in sei diverse località dal 2002 al 2009 in attesa del passaggio alla misura definitiva di protezione, mai arrivata.

Così nel 2009, stanca di uno Stato assente che la considerava collaboratrice di giustizia – benché non avesse commesso alcun reato – amareggiata dalla mancata istruzione di un processo grazie alle sue rivelazioni e ossessionata dall’incessante paura di possibili ritorsioni, Lea decide di uscire dal sistema di protezione e tornare prima a Petilia Policastro, suo paese d’origine, per provare a ricucire i rapporti con la famiglia e poi a Campobasso dove Carlo Cosco aveva affittato una casa per lei e Denise. Ma le regole di ‘ndrangheta sono leggi non scritte, irrevocabili e vigliacche in cui la vendetta è l’azione obbligatoria per la riappropriazione del rispetto e l’uso della violenza è indispensabile per la conservazione del proprio onore.

Così, il primo tentativo di omicidio risale al 5 maggio del 2009 proprio a Campobasso; un finto tecnico della lavatrice, Massimo Sabatino, prova invano a strangolare Lea che sfugge all’agguato grazie all’aiuto della figlia Denise e informa i carabinieri dell’accaduto ipotizzando il coinvolgimento del suo compagno. Il bisogno di soldi e la necessità di parlare del futuro scolastico della figlia, la spingono però ad accettare l’invito di Carlo Cosco a Milano. Il 20 novembre del 2009 Lea e sua figlia giungono nel capoluogo lombardo; “volevamo stare lì solo un paio di giorni e basta” afferma Denise durante il processo di primo grado. Invece si fermano fino al 24 novembre, data del rapimento e dell’uccisione di Lea.

Lea Garofalo viene rapita, torturata ed uccisa. Strangolata con un nastro floreale delle tende dell’appartamento di via Fioravanti a Milano, a pochi passi dalla movida milanese, da Carlo Cosco e il fratello Vito; il cadavere messo in uno scatolone e alla fine trasportato in un garage nella località San Fruttuoso vicino a Monza. Lì l’ordine di Carlo Cosco: “La dovete carbonizzare”. Per l’intero anno successivo, Denise è costretta a vivere accanto all’assassino di sua madre, consapevole che proprio il padre e la famiglia di quest’ultimo erano coinvolti nella scomparsa di Lea Garofalo. Il 6 luglio del 2011 si apre il processo di primo grado, che vede Denise costituirsi parte civile contro il padre, la sua famiglia e l’ex fidanzatino Carmine Venturino complice dell’omicidio della madre.

Sarà proprio lui – dopo la sentenza di primo grado che condanna i sei imputati all’ergastolo – a rivelare agli inquirenti che i resti carbonizzati di Lea Garofalo sono stati frantumati e nascosti in un tombino; non quindi sciolta nell’acido come inizialmente si era ipotizzato.

Il 29 maggio 2013 la Corte d’Assise d’Appello di Milano ha emesso la sentenza di secondo grado, confermando quattro ergastoli per Carlo Cosco, Vito Cosco, Massimo Sabatino e Rosario Curcio, assolvendo Giuseppe Cosco per non aver commesso il fatto e condannando Carmine Venturino a venticinque anni di reclusione, senza le attenuanti specifiche previste per i collaboratori di giustizia. Per la legge italiana, infatti, Lea Garofalo non è vittima di ‘ndrangheta. Per i ragazzi del presidio Lea Garofalo e per tutta la società civile invece, Lea è testimone di giustizia e vittima di ‘ndrangheta; per questo la richiesta di un degno funerale a Milano e l’intestazione di una via con il suo nome. Questo è il minimo che si possa fare, per lei e per sua figlia Denise.

  • Tra il 24 e il 25 novembre Lea Garofalo scompare
  • Febbraio 2010 – ordinanza di custodia cautelare per Carlo Cosco e Massimo Sabatino per il tentato omicidio a Campobasso
  • Maggio 2010 – ordinanza di custodia cautelare per Carlo Cosco, Vito Cosco, Giuseppe Cosco, Massimo Sabatino e Rosario Curcio per aver predisposto ed organizzato l’agguato volto a sequestrare, uccidere e distruggere il corpo di Lea Garofalo
  • Il 6 luglio 2011 inizia il processo di primo grado
  • Il 23 novembre 2011 il Presidente della Corte Filippo Grisolia è nominato Capo di Gabinetto dell’appena insediato Ministro della Giustizia Paola Severino; la nuova funzione è incompatibile con il precedente incarico quindi il processo è tutto da rifare
  • Il 30 marzo 2012 il nuovo Presidente della Corte Anna Introini condanna all’ergastolo i sei imputati, per sequestro, omicidio premeditato, dissolvimento in acido del cadavere
  • Luglio 2012 – Carmine Venturino inizia a collaborare
  • Novembre 2012 – ritrovamento del cadavere carobonizzato di Lea
  • 29 maggio 2013 – sentenza di secondo grado; confermati gli ergastoli per Carlo Cosco, Vito Cosco, Massimo Sabatino e Rosario Curcio; venticinque anni per Carmine Venturino, assoluzione per Giuseppe Cosco

 

 

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