L’entusiasmo antiproibizionista deve ancora aspettare. Giovedì scorso aveva fatto il giro della rete una serie di articoli che ispirandosi al lancio d’agenzia dell’Ansa intitolato “No galera per chi coltiva marijuana” aveva gettato false speranze per i fautori della cannabis libera. Ci hanno pensato il sito overgrow.it e l’associazione Ascia (Associazione sensibilizzazione Canapa autoprodotta) con un comunicato congiunto a far chiarezza sul punto. La notizia fallace riguardava l’approvazione, in Commissione Giustizia al Senato, del disegno di legge n.925 che in merito alle modifiche alla disciplina vigente in materia di stupefacenti (D.P.R 309/2006 poi modificato dalla legge 49/2006). Ma l’illusione del gol si è spenta presto. La precisazione delle due associazioni è stata come la bandierina alzata del guardalinee che segnala il fuorigioco. L’emendamento n° 31 presentato dal Sen. Giuseppe Lumia, già presidente della Commissione parlamentare antimafia, non intende permettere a chiunque di poter coltivare piante di cannabis liberamente per uso personale. Piuttosto riguarda la coltivazione soggetta ad autorizzazione, ovvero per usi agricoli, industriali, farmaceutici e alimentari e con un contenuto minimo di principio attivo. Senza contare che siamo di fronte ad un disegno di legge che dovrà ancora passare al vaglio delle Camere.
L’ANALISI
La legislazione italiana in materia di stupefacenti nel novero delle normative mondiali si può considerare come una sorta di proibizionismo moderato. Il legislatore italiano però negli ultimi anni, soprattutto dopo l’approvazione nel 2006 della Legge Fini-Giovanardi, non si è mosso verso politiche di riduzione del danno o legalizzazione bensì verso il suo opposto, verso la repressione del fenomeno. Il passo compiuto in Commissione Giustizia è più corto di quello di un bambino. Lo dimostra la bocciatura dell’emendamento n°18 nel quale si proponeva di estendere anche ai coltivatori per uso personale i benefici proposti dal n°31. Nel definire quello italiano un proibizionismo moderato ci si muove lungo un continuum di vari modelli di regolazione. Si va da un approccio rigido, come gli Usa, ad uno più moderato (Italia, Portogallo) ad una legalizzazione de facto (Paesi Bassi). La distanza tra i vari Paesi sta nella diversa considerazione della tematica droga. Rispettivamente, da questione criminale a sanitaria, dunque da criminalizzazione a politiche di riduzione del danno. In Italia, seppur non sia previsto l’arresto per l’utilizzo e la detenzione di droga ad uso personale, la legge predispone sanzioni amministrative inasprite dalla legge del 2006 rispetto al 1990. Oltre a ciò la normativa italiana si discosta ulteriormente da Paesi più moderati come il Portogallo in quanto, oltre a non ottenere risultati sul fronte della riduzione della domanda (si vedano i dati del 3° Libro Bianco sulla Fini-Giovanardi), i programmi alternativi terapeutici non sono più una scelta differente alla sanzione, ma, anzi, si aggiungono a questa. Ciò non ha fatto altro che portare ad un crollo delle richieste di programma terapeutico.
Paesi come l’Olanda o il Portogallo hanno scelto politiche orientate alla riduzione del danno. Hanno realizzato che il fenomeno droga è criminalizzato puramente per una questione di indesiderabilità sociale. Infatti, si tratta di un comportamento, di un crimine “senza vittima” in quanto chi fa uso di sostanze stupefacenti non produce danni ad altre persone se non a se stessa. Inoltre, considerano il fenomeno come un problema sanitario. Ma non basta.
Bisogna realizzare come il proibizionismo, in particolare sulle droghe leggere ma anche su altre tematiche come la prostituzione, rischia di produrre un paradosso della legalità. Si concretizzano effetti indesiderati. Infatti, dopo quarant’anni di guerra alla droga il fallimento delle politiche rigide è totale mentre le organizzazioni criminali che gestiscono il business della droga sono sempre forti e attive. Il fallimento è evidente su tutti i fronti. Il consumo non è diminuito ma è sempre costante se non in crescita. Analogo discorso per la produzione. Può sembrare che cali in un punto ma, se si guarda bene, nuovi punti di produzione nascono altrove.
Il proibizionismo non è altro che un fattore criminogeno grazie al quale organizzazioni criminali, anche e soprattutto di stampo mafioso, si rafforzano. Per poter muovere la droga servono schemi di corruzione per evitare i controlli; i pagamenti necessitano di sistemi poco trasparenti sulla provenienza e la destinazione dei soldi; i gruppi criminali possono guadagnare legittimità offrendo protezione per la produzione, guadagni per gli spacciatori e soddisfazione dei bisogni per i consumatori; i reati per droga riempiono le carceri e i detenuti, una volta tornati in libertà, faticano a reinserirsi nella società e nel mondo del lavoro arrivando così a commettere nuovi crimini. Tutto questo ha costi per lo Stato primariamente economici ma anche sociali.
Le politiche di depenalizzazione e di riduzione del danno sono un passaggio fondamentale nel contenimento del problema ma non lo possono risolvere. A meno che anche la vendita di droga non venga legalizzata i trafficanti continueranno ad essere i principali attori sul mercato e continueranno a trarne benefici. Non si tratta però di lasciare campo libero ed abolire ogni forma di controllo. La legalizzazione de facto olandese (si tratta più di tolleranza, per approfondire si legga qui) o quella completa che verrà realizzata in Uruguay possono fornire l’esempio su come agire. Immerso in un continente dove il problema droga è sempre preponderante, l’Uruguay, dopo il voto favorevole della Camera dei deputati, attende solo il voto del Senato per attuare, per la prima volta al mondo, una politica di vera legalizzazione ispirata al fallimento della war on drugs e alla volontà di combattere seriamente la criminalità organizzata.
Insomma, seppur nel dibattito mondiale sembra che siano maturi i tempi per cogliere e tradurre in norme giuridiche (anche oltre il settore dell’uso di sostanze) un dato di esperienza acquisito: quello secondo cui l’intervento giudiziario non può essere chiamato ad affrontare e curare gravi problemi sociali o esistenziali”. In Commissione giustizia al Senato italiano si poteva e doveva fare di più. E’ ora di affrontare la tematica droga con occhi liberi da pregiudizi. La lotta alla mafia ce lo chiede.