“A quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito”. Così scrisse l’avvocato Giorgio Ambrosoli alla moglie Annalori in una lettera del 25 febbraio 1975, riportata dal figlio Umberto in Qualunque cosa succeda, il libro nel quale ripercorre la vita di suo padre. Le aveva appena riferito che aveva compiuto il suo lavoro onestamente e che per questo, forse, da quel momento in poi avrebbe rischiato la vita. “Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto”, continuò Ambrosoli nella lettera. Aveva capito che il suo impegno civile e professionale non faceva piacere a molti. Lo lasciarono solo, tra le minacce e le intimidazioni, fino alla morte, quell’11 luglio 1979, sotto casa, a Milano. Nessun politico ebbe il coraggio di partecipare al suo funerale. E solamente nel 1999, vent’anni dopo la sua morte, lo Stato italiano ne riconobbe “l’inflessibile rigore e costante impegno” con la medaglia d’oro al valor civile. Perché? Cosa scoprì Ambrosoli? E quali poteri aveva osato ‘sfidare’?
Nato a Milano il 17 ottobre 1933 da una famiglia borghese, cattolica e conservatrice, Giorgio Ambrosoli decise di seguire le orme del padre Riccardo e si laureò in Giurisprudenza nel 1958. Iniziò subito a lavorare presso lo studio dell’avvocato civilista Cetti Serbelloni. Era bravo il giovane Ambrosoli. E fu subito premiato con l’opportunità di affiancare come segretario il gruppo di 3 commissari liquidatori della Società Finanziaria Italiana da tempo in profonda crisi e al centro di un dissesto finanziario e bancario, anche con risvolti politici. Un incarico difficile e scomodo. Ma lui non si rifiutò; anzi, rilanciò. In dieci anni diventò il vero leader dell’azione liquidatoria. Dieci anni importanti, che diedero al giovane avvocato conoscenza, competenza ed esperienza sufficiente per affrontare un nuovo e intricato crack finanziario. Nel 1974, infatti, fu nominato dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli commissario unico liquidatore della Banca privata italiana, guidata allora dal siciliano Michele Sindona. Ostacolato, isolato, l’avvocato Ambrosoli inviò dopo cinque mesi la sua prima relazione alla Banca d’Italia, nella quale risultava, oltre alla passività dell’istituto, la richiesta al tribunale della dichiarazione di insolvenza e l’avvio dell’azione penale nei confronti del banchiere. “Un eroe borghese”. Così lo definì Corrado Stajano nel suo libro, pubblicato da Einaudi nel 1991. Un eroe borghese che svolse con onestà il compito a lui assegnato. Senza guardare in faccia nessuno. Senza cambiare atteggiamento. Mai.
Parallelamente all’acquisizione dell’incarico, Ambrosoli cominciò a subire minacce, finalizzate alla realizzazione di documenti comprovanti la buona fede di Sindona. Se così si fosse fatto, lo Stato italiano avrebbe dovuto ripianare, per mezzo della Banca d’Italia, i debiti della banca di Sindona. L’avvocato Ambrosoli non si fece intimidire e completò il suo lavoro con profondo senso dello Stato. Aveva scoperto relazioni personali inquietanti, ben visibili attraverso i conti correnti bancari. Il banchiere siciliano Michele Sindona godeva di una ‘copertura’ politica importante (e dominante all’epoca), la corrente democristiana facente capo a Giulio Andreotti. Non solo. Aveva stretto legami di primo livello con il Vaticano (e la sua zona oscura, come lo Ior), la massoneria (soprattutto la P2 che fu scoperta anni dopo), l’alta finanza e la criminalità organizzata (Cosa Nostra siciliana e americana). Con queste ultime fu un rapporto duraturo, dedito al riciclaggio di denaro sporco proveniente dal traffico di stupefacenti, operato dalla mafia. Riciclaggio per il quale, nel 1967, fu segnalato dall’Interpol statunitense, proprio a causa dei suoi rapporti con Cosa Nostra americana.
Ambrosoli scoprì tutto questo. Un intreccio pericoloso. Troppo pericoloso per una persona abbandonata dalle istituzioni pubbliche. Dopo cinque anni concluse il procedimento di liquidazione e collaborò con la magistratura statunitense e l’FBI per il fallimento della Franklin National Bank, nella quale emerse la responsabilità di Sindona. Alla paura rispose con il coraggio. Coraggio, di diversa natura, che, tuttavia, non mancò nemmeno a William Aricò, il killer legato alla mafia statunitense pagato dallo stesso Sindona per uccidere l’avvocato Ambrosoli. “Mi scusi avvocato Ambrosoli”, in questo modo si rivolse Aricò all’avvocato Ambrosoli, di ritorno da una serata tra amici, trascorsa a guardare la boxe in televisione. Sparò quattro colpi. Ambrosoli morì sull’ambulanza che tentò invano di trasportarlo d’urgenza in ospedale. Era la sera dell’11 luglio 1979. L’avvocato Ambrosoli lasciò per sempre la moglie Annalori e i figli Francesca, Filippo e Umberto.
Come mandanti dell’omicidio furono condannati all’ergastolo Michele Sindona e Robert Venetucci, trafficante di armi e droga (legato a Cosa Nostra americana) e intermediario tra il killer e il banchiere siciliano. Aricò e Sindona morirono entrambi in circostanze misteriose in carcere. Il primo perse la vita durante un tentativo di evasione in circostanze sospette e mai chiarite; il secondo morì avvelenato dopo aver bevuto un caffè contenente cianuro, quattro giorni dopo la condanna. Coincidenze? Può darsi.
“Ambrosoli se l’andava cercando”, con queste parole Giulio Andreotti commentò l’omicidio di Ambrosoli in una puntata de La storia siamo noi del 2010. Andreotti si sbagliava. Ambrosoli fece il suo lavoro, con impegno, con dedizione, con coraggio. Non cercò nient’altro che la verità in mezzo a tutto quel materiale che ereditò nel 1974. Onesto, scrupoloso, intransigente. Un esempio. Trentaquattro anni dopo, ricordiamolo.