Ciao Denise,
vorrei dirti tante cose ora, ma non penso di averne il coraggio. Cosa potrebbe dirti un ragazzo del Lago di Garda, trapiantato a Milano, senza risultare banale e retorico? È difficile. Molto. Ma il desiderio di esprimere sentimenti ed emozioni è il risultato che scaturisce nel cuore di quel ragazzo, quando si interessa a queste storie. Come la tua Denise. Anzi, come la vostra, Denise e Lea. Si, perché scrivendo a te, cara Denise, è come scrivere anche a Lea, la tua mamma, colei che ti ha donato la vita e che ti ha protetto fino a quando ha potuto. Con le sue uniche forze. Con la sua tenacia. Con il suo coraggio.
Ecco, vorrei che però fosse chiara una cosa. Quando si affiancano a queste storie le parole “coraggio”, “tenacia”, “amore”, non si vuole essere retorici o amanti della nobiltà da tastiera. È vero, qualcuno potrebbe sempre pensare che è troppo facile fare i “belli e cari” dopo. Ma durante? E prima? Giusta osservazione, direi. Ma come descrivere meglio della parola “coraggiose” due donne, unite indissolubilmente dall’amore reciproco, che si ribellano alla propria famiglia e ad una mentalità e cultura che come un macigno ti opprime dalla nascita? Ma soprattutto, come può un ragazzo del nord capire cosa voglia dire nascere e crescere in un paese sperduto nell’Aspromonte? Semplicemente non lo può capire. Pur avendo anch’egli la mafia “in casa” da quarant’anni, non può minimamente immaginare una vita, o anche solo un pezzettino di essa, in quei luoghi così intessuti di valori ancestrali devianti. Valori snaturati a proprio piacimento. Luoghi nei quali l’onore e il rispetto hanno significati differenti da quelli che si usano in altre latitudini e in altri mondi. Quindi chi decide dove un uomo o una donna debba nascere? Se a Milano o a Beirut, se a Gaza o a Petilia Policastro? Forse il destino. E a volte quest’ultimo è crudele. Ti sottopone a delle interminabili sofferenze. Quelle che un ragazzo del Lago di Garda non può comprendere.
E poi? E poi ci siete voi, Lea e Denise. Che avete cercato di sovvertire quel destino ingiusto a cui eravate destinate. L’amore della tua mamma nei tuoi confronti, Denise, era troppo grande per poterti immaginare donna di una casa di spaccio, silenziosa e compiacente. Perché quella, vita non è. Significa soltanto nascere e galleggiare per decenni, in attesa che qualcuno ti prenda e ponga fine alle tue sofferenze. Quindi la ribellione. Forte e decisa. Non di un uomo “pentito”, che decide di collaborare. Ma di una donna, soltanto testimone di un mondo criminale che non le appartiene e che non vuole condividere. Si chiama Lea, dal greco Leon e dal latino Leo, che significa “Leonessa”. Penso che, mai come in questo caso, il nome sia decisamente appropriato. Perché dopo aggressioni e intimidazioni, una leonessa entra nella caserma dei Carabinieri. A Petilia Policastro, in provincia di Crotone. “Io sono Lea Garofalo, soltanto Lea Garofalo”. I muri tremano, e come loro la famiglia Cosco.
Sicuramente non sarò io, Denise, a raccontarti la tua storia. Anzi, penso che questa storia sia quasi soltanto tua. Non oso immaginare cosa significhi svegliarsi nel cuore della notte e assistere all’incendio della vostra macchina. Non oso immaginare cosa significhi assistere alle aggressioni alla tua mamma. Non oso immaginare cosa si provi nel cambiare identità, cambiare città e vivere nel terrore. Non lo so. E quasi mi sento colpevole e privilegiato nello stesso tempo. Colpevole perché non c’ero e non ho potuto aiutarti. Privilegiato perché questa sofferenza non so che sapore abbia. Ma, nonostante tutto questo Denise, voglio dirti due cose. Innanzitutto Scusa. Scusa a nome dello Stato che non è riuscito a proteggere la tua mamma. Scusa a nome di quel magistrato che revocò la vostra protezione dopo la morte di tuo zio. Scusa per quella solitudine subita per anni. Scusaci se non vi siamo stati vicino quando ne avevate bisogno. Scusaci se abbiamo inconsapevolmente permesso che tua madre fosse uccisa, e che il suo corpo fosse oltraggiato, bruciato e fatto a pezzi.
Infine grazie. Grazie per quello che avete compiuto. Grazie per aver creduto lo stesso nello Stato, anche dopo i suoi errori. Grazie per aver dato l’esempio a tutte quelle persone, donne e figlie, che ogni giorno subiscono quello che avete subito voi. Grazie per il tuo coraggio. Nessuno potrà mai capire cosa significhi accusare in un’aula giudiziaria il padre, colpevole di aver ucciso la madre. Grazie per gli insegnamenti di amore e onestà che hai prodotto alla tua giovanissima età.
Dopo aver visto il film, che spero sia entrato in tante case italiane, anche di Petilia Policastro, mi trovo qui a scrivere queste semplici righe. Che sono il frutto di anni di sentimenti rabbiosi messi in fila, uno accanto all’altro. Ero presente al funerale. Ero presente alle fiaccolate. C’ero, si. Ma quando pensavo di scrivere, le dita si immobilizzavano. Rigide e impotenti. Imbarazzate. Perché era sempre la stessa domanda: “Cosa potrebbe dirti un ragazzo del Lago di Garda, trapiantato a Milano, senza risultare banale e retorico?”. Forse niente. Forse tanto. Non lo so. Oggi riesco a scriverti e ne approfitto. Mi basterebbe solo sapere che tu sia cosciente di non essere sola. In qualunque parte d’Italia o del mondo tu sia, non sei sola Denise. E ci sarà sempre una parte d’Italia che ti chiederà scusa e ti ringrazierà. Perché il coraggio siete voi. Lea e Denise. Leonesse. Senza cognomi.