di Camilla Caron
Inizia con una notizia fresca di agenzia il settimo incontro del ciclo “L’Italia civile dei Don: da Don Milani e Don Ciotti” organizzato presso la Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali dell’Università Statale di Milano: il Parlamento Europeo ha approvato (con 631 voti favorevoli, 19 contrari e 25 astensioni) la direttiva che prevede la confisca dei beni per reati come la criminalità organizzata a la corruzione, ed il loro riutilizzo sociale. Don Luigi Ciotti, ospite dell’incontro, annuncia la notizia con un sorriso sulle labbra, di quei sorrisi sinceri, pieni di gioia ma che portano con sé anche la consapevolezza che, sebbene un grande passo sia stato fatto, la strada è ancora lunga. Ma in un’Europa in cui la maggior parte dei paesi spesso rifiuta di accostare alle proprie società accenti mafiosi di stampo italico, questa direttiva rappresenta un segno importante, che affonda le sue radici in una lotta partita dalla raccolta di un milione di firme da parte dell’associazione Libera, fondata dallo stesso Ciotti, nel 1995, sforzo che si è poi concretizzato con l’emanazione della legge 109/1996 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. Il risultato di Bruxelles nasce dalla consapevolezza che la lotta alla criminalità organizzata passa anche per la restituzione alla collettività dei frutti di questo crimine, per trasformarli in un bene sociale al servizio dei cittadini.
Così inizia l’intervista di Nando dalla Chiesa, docente di Sociologia della criminalità organizzata presso l’Ateneo Milanese che ospita l’evento, a Don Luigi Ciotti: una breve introduzione biografica di Luana Petre ripercorre i suoi inizi, il trasferimento da Pieve di Cadore a Torino, l’ingresso in seminario, la vicinanza e l’aiuto fornito ad emarginati, tossicodipendenti, donne vittime di abusi, e di coloro che spesso purtroppo la nostra società nasconde, dimentica o strumentalizza a piacere e a comando per giungere ad un profitto personale occasionale; e poi la fondazione del Gruppo Abele, di Lila e infine l’impegno nella lotta contro la criminalità organizzata con la nascita di Libera, nel 1995. L’incontro ha come titolo “la legalità giusta”, ed è proprio sul significato di legalità che Don Ciotti articola una lunga e sentita riflessione. Legalità che definisce come strumento fondamentale della vita sociale per promuovere lo sviluppo della persona umana e la costruzione del bene comune, parola che, purtroppo, oggi risulta abusata, sbandierata, retoricamente invocata da folle di manipolatori, abilmente rubata e spesso svuotata di significato da seduttori politici che ne tramutano il significato in qualcosa di malleabile e controllabile a seconda dei diversi scopi. La legalità, continua Ciotti, deve essere un mezzo, uno strumento che mette i paletti necessari per giungere al vero fine, la giustizia sociale, orizzonte raggiungibile solo attraverso il rafforzamento delle responsabilità individuali, che devono essere mosse da un contenuto etico ed umano, che aiuti sempre a ricordare che al fianco di diritti possediamo anche una serie di doveri. Bisogna quindi preservare un corretto utilizzo della legalità, che senza responsabilità individuale e giustizia sociale si svuota di ogni contenuto, e diventa meramente un concetto astratto e di facciata, che apre una strada irta di ambiguità e pericoli, dove, allontanata dal concetto di uguaglianza, essa può diventare un elemento di tensione e venir utilizzata come strumento di esclusione, di discriminazione e di potere.
E’ inutile sdegnarsi dunque per le stragi di Lampedusa, se l’unico sentimento che muove questo sdegno è la volontà di approfittarsi di una tragedia a fini elettorali, o se a questo sdegno non segue un’azione concreta. Ci vuole coscienza per parlare di legalità, e bisogna tutelare la dignità umana ancor prima di parlare di eticità. La legalità viene dopo, e deve sempre essere accompagnata da uguaglianza e giustizia sociale. Non c’è legalità senza uguaglianza e, come afferma l’art. 3 della nostra Costituzione, è compito delle istituzioni rimuovere “gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Bisogna allora non solo indignarsi ma anche reagire, analizzare, scavare il “peccato del sapere”, quella mancanza di profondità che riesce a fare molti danni, spesso anche a lungo termine. Ecco perché diventa così importante creare percorsi, perché come ricorda Ciotti “i dubbi sono più sani delle certezze” e porsi domande in un modo propositivo risulta molto utile nella ricerca della verità e della giustizia, e nella strada per diventare persone responsabili, capaci di ridare dignità a chi ne è stato privato.
L’incontro con Don Ciotti è fatto di riflessioni e spiegazioni, ma anche di storie e di ricordi; è fatto però soprattutto di incontri, di quelli che lasciano il segno: quegli incontri che ti graffiano e ti scuotono, che ti spingono ad indagare, a cercare il male, che ti aiutano a riconoscerlo e ti spronano a denunciarlo. Torna alla memoria l’incontro con il medico sopraffatto dalle sventure seduto con tre cappotti, un mucchio di libri e una matita rossa e blu per sottolinearli in una panchina del parco, con il quale il diciassettenne Luigi Ciotti, non ancora Don, si imbatte, e che lo fa riflettere sulla compassione, sulla solidarietà e sulla voglia di muoversi per il prossimo. Parla dell’esperienza di Libera, della difficoltà di tenere insieme realtà e situazioni tanto diverse, della fatica di spalare via il fango che ciclicamente la lotta antimafia attira su di sè, ma anche della gioia di ritrovarsi in un impegno e in una forza che ha raggiunto oggi un grandissimo raggio di azione.
Parla anche di Chiesa e legalità, di Chiesa e Mafia, delle contraddizioni nell’intreccio e nello scontro di questi mondi – “ho litigato con i preti da ragazzo, e spesso dentro di me continuo a farlo, eppure eccomi qui” – e si sofferma sull’impegno di tanti preti e uomini di fede che hanno dedicato la loro vita, spesso pagando a caro prezzo questa decisione, a contrastare il crimine organizzato, reagendo alle intimidazioni dei cosiddetti uomini d’onore, che più volte hanno minacciato con chiari messaggi sacerdoti impegnati nell’antimafia, ordinando loro di non interferire. Intimidazione che ha spinto molti di loro a continuare a parlarne, ad urlare più forte: risuonano nell’aria quindi esempi civici come il Cardinal Martini, Don Gallo, Don Puglisi e Don Diana, che, citando le parole del Cardinal Pappalardo pronunciate dopo l’uccisione di Don Puglisi, “hanno percepito la loro missione evangelica secondo principi moderni e l’attività pastorale come promozione civile”. Ma non si tratta di preti antimafia, si tratta solo di preti – perché “impoverisce la bellezza di una vita essere etichettato” – che cercano di “saldare la terra con il cielo”.
Da qui nasce la voglia di creare, negli anni ’90, Libera: dal desiderio di mettere insieme l’Italia in tutte le sue espressioni e forze, per interferire laddove la dignità umana viene calpestata, per seminare e moltiplicare coscienze, unico metodo per sconfiggere la “civiltà della morte”, quella mafiosa. C’è però bisogno di un impegno costante, da ricercare soprattutto nelle scuole e nelle università, con passione e sobrietà, e le occasioni certo non mancano: tanti sono gli impegni che confluiranno nella XIX Giornata della Memoria e dell’Impegno che si terrà il 22 marzo a Latina. Perché non c’è libertà senza verità, e la battaglia contro corruzione, favoritismi, clientelismi, atteggiamenti criminali e omertosi, malcostume e, ancor peggio, buoncostume mascherato è la via verso quella legalità giusta che Libera da ormai 19 anni persegue.