di Francesco Donnici
«Stefano a Brescia ha un impero, se la comanda». Questo estratto risale a qualche anno fa. È un commento agli esiti di “Eyphemos”, un’inchiesta della Dda di Reggio Calabria che nel febbraio 2020 aveva colpito decine di soggetti ritenuti vicini alle cosche attive sul territorio di Sant’Eufemia d’Aspromonte e che, proprio in questi giorni, ha visto pronunciate importanti assoluzioni da parte della Cassazione. Oggi è una delle numerose captazioni passate in rassegna dalla Dda di Brescia e finite agli atti dell’indagine che all’alba di questo 5 dicembre ha visto l’applicazione di 25 misure cautelari, tra Lombardia, Calabria, Veneto e Lazio, a una serie di soggetti ritenuti organici o vicini alla ‘ndrangheta. Lo “Stefano” menzionato in quel vecchio inciso sarebbe Stefano Terzo Tripodi, classe 60, presentato dalla Dda di Brescia come «soggetto formalmente organico alla ‘ndrangheta con una dote di altissimo livello», ovvero quella di “santista”, e con «funzioni direttive e di coordinamento» di una presunta “locale” attiva sul territorio bresciano. Tale «impero» di Tripodi, negli anni, si sarebbe nutrito grazie a estorsioni, traffici di droga ed armi, evasione fiscale e soprattutto a «un sacco di denaro», quello stesso che, inserendo le persone giuste al posto giusto, Tripodi sapeva di poter ottenere con gli appalti pubblici. In tal senso, evidenzia un passaggio dell’ordinanza firmata dal gip di Brescia, «altra caratteristica tipica delle associazioni di stampo mafioso che viene in rilievo è il tentativo di allacciare rapporti con funzionari della pubblica amministrazione o amministratori». O altri insospettabili attinti tanto tra professionisti quanto nella sfera dei soggetti del terzo settore, com’è il caso di Giovanni Francesco Acri, già consigliere comunale a Brescia in quota Fratelli d’Italia, di professione medico, o suor Anna Donelli. Entrambi accusati di concorso esterno in associazione mafiosa.
Il “santista”. Dai racconti dello stesso Stefano Tripodi intercettati dagli inquirenti, emerge un’esasperata autorappresentazione del “picciotto” self-made, figlio di quello che lui stesso definisce un «capo crimine». Il padre, Francesco Tripodi, classe 1932, a detta degli inquirenti avrebbe partecipato finanche allo storico summit di Montalto del 1969 con l’obiettivo di «unire la ‘ndrangheta». Il giovane Tripodi, dal canto suo, appena uscito dal collegio a 12 anni, afferma, procuratasi un’arma da fuoco avrebbe esordito sulla scena a suon di rapine. Poi il trasferimento al Nord, a Parma, e le trasferte del fine settimana a Milano per «picchiare i proprietari dei locali». «Non potendo scendere il Calabria», continua, «era andato al Nord per fare il killer di mestiere», guadagnando «500 euro per ogni morto». Così fino all’arrivo a Brescia nel 2009. Da qui sarebbe iniziata la scalata che lo porterà a rivendicare anche la carica di “santista” e un rapporto privilegiato con alcune tra le più potenti famiglie di ‘ndrangheta come gli Oppedisano di Rosarno o i Mancuso di Limbadi, al centro del noto processo “Rinascita-Scott”. I collaboratori di giustizia ascoltati dai magistrati di Brescia lo indicano – insieme al figlio Francesco, classe 82, anche lui indagato – quale creatore di una “locale” nella provincia di Brescia «di diretta derivazione della cosca Alvaro di Sinopoli», piccolo centro nel cuore dell’Aspromonte. Il quartier generale indicato dai magistrati bresciani sarebbe l’ufficio della società Stefan Metalli di Flero, dove «i membri del sodalizio si incontrano per organizzare e decidere le proprie attività illecite». Sarà grazie a quel viavai di una serie di soggetti ritenuti vicini all’ambiente della criminalità organizzata, registrato dalle microspie piazzate dagli investigatori, che si riuscirà a ipotizzare l’esistenza di una struttura associativa che avrebbe cercato di riprodurre il modus operandi della mafia calabrese sul territorio lombardo. Dai racconti ascoltati pare che negli anni il potere dei Tripodi si fosse esteso a macchia d’olio su quel territorio fino a penetrare la politica, la sanità e finanche le mura del carcere.
Il medico. In una conversazione con Mauro Galeazzi, ex esponente della Lega a Castel Mella, anche lui finito ai domiciliari, Tripodi parla di un altro calabrese, «uno dei nostri», che «mangia la stessa politica». Si tratta di Giovanni Francesco Acri, classe 1957, medico originario di Rossano, in provincia di Cosenza, noto nell’ambiente politico lombardo dopo l’elezione in consiglio al Comune di Brescia con FdI. Anche lui viene intercettato diverse volte nell’ufficio di Tripodi a Flero. Spicca in tal senso una conversazione tra i due dove Acri si lascia andare a «insulti al procuratore della Repubblica di Catanzaro», all’epoca Nicola Gratteri, oggi procuratore di Napoli, «così intendendo esprimere una sintonia col proprio interlocutore». Unità d’intenti che si traduce anche a livello professionale, sintetizzata in una «estrema disponibilità alle richieste» provenienti dai Tripodi. Proprio il presunto capo “locale” racconta un episodio che avrebbe coinvolto il figlio durante il periodo in cui era latitante. «Acri, operando come dottore» si legge, «aveva aiutato a curare una persona che aveva partecipato insieme a Francesco Tripodi ad una rapina». Per gli inquirenti, proprio questo episodio sarebbe testimonianza della disponibilità di Acri a mettere «la propria capacità professionale al servizio del sodalizio». Operatività, quella del medico, funzionale a un do ut des. Dal canto suo, infatti, avrebbe richiesto alla famiglia Tripodi «un intervento per problematiche insorte riguardo all’apertura di un centro per migranti» nel territorio reggino. Anche per questo, nelle parole del gip, gli epiteti utilizzati da Acri nei confronti di Gratteri «non possono essere relegat[i] a mere espressioni verbali» risultando, al contrario, «espressione di una piena consapevolezza ed adesione alle dinamiche di consorterie criminali cui l’indagato faceva riferimento».
La suora. Oltre ad Acri, il gip ha riscontrato l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza in relazione alla condotta presunta di concorso esterno in associazione mafiosa anche nei confronti di suor Anna Donelli. La sua, fin dalle prime ore successive al blitz interforze, è stata una delle posizioni che più hanno fatto discutere – attualmente è ai domiciliari – a fronte della dissonanza tra il suo vissuto e l’ipotesi di reato contestata. Non a caso, la notizia ha lasciato attonite diverse persone che con lei avevano condiviso il percorso di volontariato nel penitenziario di San Vittore. “Collina”, come veniva soprannominata quando le capitava di arbitrare le partite di calcetto tra i detenuti, nell’anno appena trascorso aveva ricevuto anche il “Panettone d’oro”, un premio alla virtù civica assegnato da associazioni e comitati del territorio milanese, per la sua capacità, si legge nella menzione, di «seminare speranza e far vivere l’amicizia a chi, oltre alla condanna, deve fare i conti con la solitudine e il distacco dalle relazioni umane». Un’immagine capovolta dalla Dda di Brescia secondo cui avrebbe messo «a disposizione la sua opera di assistente spirituale per veicolare messaggi tra gli appartenenti ai clan» divenendo occhi e orecchie del sodalizio all’interno delle mura del carcere. Aspetti che gli inquirenti traggono soprattutto da alcune intercettazioni come quella in cui Vincenzo Iaria, anche lui nell’elenco degli indagati, avrebbe confessato a Rosario Marchese come «all’interno del carcere» riuscisse ad ottenere «delle informazioni provenienti dai Tripodi tramite una religiosa». Gli inquirenti trovano riscontri a questa affermazione in altri riferimenti fatti da Stefano Tripodi «ad una “monaca”», che avrebbe avuto un “patto” con lui all’interno delle carceri di Milano e Brescia. Viene captato anche un dialogo tra Tripodi e suor Anna Donelli, incaricata nella circostanza di incontrare Francesco Candiloro all’indomani del suo arresto. L’uomo è accusato di aver fatto parte del commando che la sera del 25 dicembre 2018 aveva freddato Marcello Bruzzese – si presume per vendetta nei confronti del fratello Girolamo, collaboratore di giustizia – in centro a Pesaro. Donelli avrebbe dovuto aspettare di essere sola con Candiloro e riferirgli che era «l’amica di Stefano». La religiosa si sarebbe recata di nuovo negli uffici di Tripodi sei giorni dopo e lo stesso l’avrebbe presentata ad altri astanti come «la suora che lavora al carcere», chiosando in maniera poco equivoca: «Se ti serve qualcosa è dei nostri». Una vicinanza, quella coi Tripodi, che a detta degli inquirenti non appare «né occasionale né insignificante, posto che gli stessi capi del sodalizio rappresentano la capacità di veicolare messaggi tramite la suora all’interno degli istituti penitenziari». Di converso, sempre a detta dei magistrati, Donelli sarebbe stata consapevole del potere della famiglia Tripodi. Il riferimento è a quanto avvenuto in seguito a un incidente avuto dalla nipote quando la religiosa avrebbe «tranquillizzato la ragazza dicendo che avrebbe pensato lei alla vicenda tramite i suoi amici». Secondo quanto riferito da Robert Ranieli, legale di Donelli, «chi la conosce bene non può accettare di credere a una sua intenzionalità rispetto ad accuse così infamanti». Dal canto suo la suora ha sostenuto di essere «in buona fede» e di attendere il prossimo venerdì, giorno in cui è fissato il suo interrogatorio davanti ai magistrati.