di Francesca Gatti
L’Italia quaggiù è il titolo del libro -uscito lo scorso gennaio- firmato da un’autorevole penna del Corriere della Sera, Goffredo Buccini, inviato speciale e scrittore, vincitore del Premio Biella con La fabbrica delle donne.
Nel libro, di Italia si parla: più precisamente, di una porzione del territorio italiano il cui cuore coincide con i confini della Calabria, i cui riflettori si sono spenti già da tempo. ‘Perduta’ è il termine utilizzato per designarla. I motivi di quest’oblio sono svariati e persistono già prima dell’Unità d’Italia, quando il divario sociale, economico e culturale tra il settentrione ed il meridione era segnato a svantaggio di quest’ultimo e, dopo il 1861 peggiorò ulteriormente. Siamo “indotti a credere, per cinismo, pessimismo e stanchezza, che questa realtà sia immutabile”. Ma ci sbagliamo.
Il libro racconta, però, in particolare le storie di donne e della loro ‘rivoluzione’, messa in atto nella vita legale, attraverso il lavoro “silenzioso e discreto” delle donne-sindaco che svolgono il loro compito in terre popolate dalla presenza mafiosa, e nella vita malavitosa, attraverso la contestazione e l’opposizione alle regole che sottendono la logica criminale-mafiosa, e hanno iniziato -in nome dei loro figli e di un futuro più giusto per loro- ad alzare la testa.
Il libro credo sia dedicato a loro, ma a noi tutti l’onere e l’onore di riflettere, di interessarci, e di aprire -e riformare, se occorre- le nostre coscienze per non lasciarle sole.
“Se il buonsenso delle donne va al potere o mette in discussione il potere maschilista, i giorni dei mafiosi calabresi potrebbero essere davvero contati”. Partirei da questa affermazione di chiusura al primo capitolo, che ritengo il fulcro del messaggio che vuole lanciare. Il buonsenso è una peculiarità prevalentemente femminile?
“Assolutamente sì! Sono seriamente convinto che se il nostro Paese fosse governato da più donne i risultati sarebbero senza dubbio migliori rispetto a quelli che abbiamo ottenuto finora. E questo è maggiormente applicabile alla realtà calabrese, dove la cultura di morte di cui si nutre la mafia si scontra con la cultura di vita di cui sono portatrici le donne”.
Com’è nato l’interesse verso Maria Carmela Lanzetta, Elisabetta Tripodi e verso i sindaci-donna che, nelle terre di mafia, svolgono ‘semplicemente’ il loro dovere?
“All’epoca in cui ha subìto il secondo attentato, Maria Carmela aveva annunciato le sue imminenti dimissioni. Attraverso la mia attività per il Corriere della sera, mi sono occupato del ‘caso’, pubblicando una lettera aperta sul giornale ed ho ricevuto una sua risposta”.
Lirio Abbate, giornalista de L’Espresso, ha raccolto, in Fimmine ribelli, uscito lo scorso febbraio, le storie delle ‘pentite’ di ‘ndrangheta diventate collaboratrici di giustizia. Si può davvero parlare di ‘primavera delle donne calabresi’?
“Sì, ma con grande cautela: se ne può parlare a patto che queste donne non vengano lasciate sole. La Calabria è considerata ‘perduta’ e, con lei, gli uomini, ma soprattutto le donne che vi vivono e si battono per essa”.
Ne approfitto per ricollegarmi dunque al passo del libro dove Maria Carmela ripensa a quando al liceo manifestava contro la guerra in Vietnam, e sorride amaramente al pensiero di aver protestato per un posto così lontano e non per la sua Calabria.
“Due generazioni fa pensavamo di poter guarire i mali del mondo, ora quegli stessi mali sono diventati i nostri”.
“Le donne, che in passato hanno raramente avuto una parte decisiva nella vita dei mafiosi, hanno assunto un ruolo determinante: decise e sicure di sé, sono diventate il simbolo di quanto c’è di vitale, gioioso e piacevole nell’esistenza; sono entrate in rotta di collisione con il mondo chiuso, oscuro, tragico, ripiegato su se stesso e sempre sul chi vive di Cosa Nostra”.
Era il 1992, e a rivelarlo alla giornalista de Le Nouvel Observateur Marcelle Padovani, era il magistrato Giovanni Falcone.
Cos’è cambiato nel giro di un ventennio? Il ruolo delle donne all’interno dei contesti mafiosi differisce se si tratta di Cosa Nostra o di ‘Ndrangheta?
“Differisce perché Cosa Nostra e ‘ndrangheta sono associazioni diverse. Nella‘ndrangheta la componente familiare è molto solida ed il ruolo che spetta alla donna in particolare è quello della conservazione e della tutela dei valori”.
“Secondo un vecchio canone mafioso, per il quale i giornalisti sono tutti cornuti, comunisti e tragediatori, i mali di Monasterace venivano addebitati all’informazione, colpevoli di renderli noti al mondo, diffamando gente onorata”… Il suo libro è riuscito -o riuscirà- ad attrarre maggiormente l’attenzione verso i problemi dei piccoli comuni del Sud Italia, e a“non far spegnere la luce su Monasterace e dintorni”, come temeva la Lanzetta?
“Questo è un compito un po’ ambizioso per un solo libro”.
Chi prova a combattere contro il potere mafioso, è stato, nel corso della storia e mediante svariate modalità, delegittimato. Lei parla della tendenza di pensiero secondo la quale le mafie si sono infiltrare anche nell’antimafia producendo una confusione nella distinzione tra il bene e il male; “Dobbiamo batterci contro questo grigio e distinguere”: quali strumenti abbiamo per farlo, oltre agli atti concreti?
“Solo quelli, gli atti concreti. Le etichette sono sempre poco credibili”.
“Il potere delle parole, la circolazione del libero pensiero sono il nemico principale di picciotti e coppole storte”, scrive. Di che potere dispone, oggi, chi si occupa di informazione?
“Il potere che deriva dalla voglia e dalla capacità di raccontare le cose come stanno, cercando di impiegare meno filtri ideologici possibili. La parola può molto, ma necessita di coscienze in grado di recepirla”.
“Un giorno, tra qualche anno, in una strada qualsiasi della Calabria, Denise, figlia di un boss, e Federica, figlia di una sindaca, potrebbero incontrarsi, parlarsi, e perfino capirsi. Quel giorno la ‘ndrangheta sarà finita”, conclude così il libro.Ma basta veramente questo?
“No, ma questo sarebbe già molto significativo”.
“Le donne possono cambiare questa terra dove le regole della ‘ndrangheta ne riducono la dignità a brandelli. Donne come quelle di Monasterace. O come quelle delle famiglie mafiose, che si risvegliano e saltano il fosso, passano dalla parte dello Stato, denunciano padri e mariti per salvare i figli dalle faide e dalle leggi della ‘ndrangheta”. Anche lei, come Lirio Abbate, è fiducioso nel fatto che sempre più ’fimmine’ di questa terra ne seguano l’esempio?
“Io penso proprio di sì, nel senso che nessuna imbecillità maschile può placare il potere femminile”.