Thomas Aureliani
¡Ya basta! Adesso basta! Queste due parole riecheggiano ormai da troppo tempo in un Messico senza pace. Ma occorre ribadirle ancora una volta dopo l’ennesimo omicidio di un attivista, questa volta italiano. Michele Colosio, volontario bresciano, è stato freddato da un sicario scappato in motocicletta a San Cristobal de Las Casas, uno dei “Pueblos magicos” dello stato del Chiapas, nel Messico meridionale. Forse per una rapina, forse no. Forse perché il suo lavoro comunitario dava fastidio, forse no. L’incertezza è d’obbligo quando si parla di giustizia e di indagini nel paese latinoamericano. Quel paese che era diventato la seconda casa di Michele, radiologo bresciano che aveva deciso di lasciare tutto e dedicarsi agli altri. Era Miguel per gli amici messicani. Allevava animali in un piccolo podere e promuoveva l’educazione per le bambine e i bambini più svantaggiati in uno dei territori più poveri e violenti del paese. Aveva appena sistemato e regalato una bici a un ragazzino del quartiere.
Anche se il movente è ancora oscuro, l’omicidio non è però frutto della casualità. Lo stato messicano del Chiapas – insieme a molti altri territori della Repubblica – è preda di una violenza sempre più fuori controllo. Da diversi anni gruppi paramilitari e criminali organizzati si sono insediati nella regione, anche grazie alla connivenza della politica e di pezzi delle istituzioni locali. Pochi giorni prima era stato assassinato brutalmente, non lontano da San Cristobal, anche Simón Pedro Pérez López, leader della comunità indigena tzozil. Era presidente dell’associazione Las Abejas de Acteal, un gruppo vicino alle istanze dello zapatismo e impegnato nella tutela dei diritti umani e nella ricerca della giustizia per il massacro di Acteal, avvenuto nel 1997 ad opera di gruppi paramilitari vicini all’Esercito. Simón stava lavorando ad una denuncia collettiva per dare eco alle numerose sparizioni forzate, estorsioni e minacce della criminalità organizzata operante nella regione ai danni delle comunità indigene. A seguito della morte dell’attivista messicano proprio la diocesi di San Cristóbal denunciava, parlando del Chiapas, “la riattivazione delle forze che sono mutate da paramilitari a criminalità organizzata, alleate al narco-governo, che hanno invaso il nostro Stato per domare la resistenza dei popoli organizzati che difendono la loro autonomia”.
Gli omicidi di Michele e Simón si inseriscono dunque in un contesto di violenza, corruzione e impunità che ha provocato in tutto il Messico, durante il governo dell’attuale presidente Andrés Manuel López Obrador (da dicembre 2018), 56 omicidi di attivisti e difensori dei diritti umani. 57 con Michele, l’ultimo di una lista interminabile e solo parziale della Commissione Nazionale per i Diritti Umani. Un’attivista di una riconosciuta e importante associazione civile messicana, di cui si omette il nome per sua sicurezza personale, riferisce come sia possibile parlare di attacchi coordinati contro chi difende l’ambiente e i territori, le comunità indigene o LGBT, i diritti umani nel suo insieme. Una sorta di piano di sterminio volto a soffocare la protesta sociale e chi si impegna a difendere il prossimo, a promuovere l’eguaglianza, la libertà d’informazione, l’accesso alle risorse naturali, l’educazione giovanile. L’attacco ai popoli indigeni e a chi li difende è particolarmente organizzato e sistematico: dal 1996 al 2019 si contano 117 omicidi e 11 sparizioni forzate appartenenti al Congreso Nacional Indígena – CNI. Spesso questi popoli vivono dove qualcuno non li vorrebbe avere tra i piedi: in territori dove sono localizzate risorse energetiche e naturali di ogni tipo, luoghi prescelti per l’insediamento di mega-progetti dall’altissimo impatto ambientale oppure snodi strategici di traffici illeciti. Luoghi dunque oggetto dell’interesse di reti criminali, grosse imprese nazionali e multinazionali.
La violenza dunque non è mai casuale in Messico. E anche se fosse solo una rapina finita del peggiore dei modi (cosa che un qualsiasi conoscitore delle dinamiche e del modus operandi criminale e mafioso stenterebbe a credere), la morte di Michele, come quella di centinaia e centinaia di attivisti messicani e stranieri è figlia dell’impunità e della decomposizione dello stato messicano. Lo stesso stato che in diverse forme e a diversi livelli è complice della mattanza in corso. È dunque ora che a dire basta siano anche le istituzioni e gli organismi politici internazionali che dicono di voler tutelare i diritti umani. E mentre questo continua a non accadere, la mamma Daniela chiede giustizia dall’Italia e i suoi amici messicani dedicano a Miguel una biciclettata. Ciao Michele!