di Nando dalla Chiesa
Lo dico o non lo dico? Ma sì, diciamolo. Dio ci scampi dai magistrati. Da molti di loro, almeno. Al nord, sulla mafia. E’ il momento di lanciare un grido d’allarme. La mafia al nord è dilagata in pochi decenni, la ‘ndrangheta in particolare ha attuato veri e propri processi di colonizzazione, fino a esercitare il controllo del territorio in molte aree del Piemonte, della Lombardia, della Liguria, dell’Emilia. Lo dicono relazioni di commissioni parlamentari, rapporti della Direzione investigativa antimafia, operazioni di polizia, carabinieri e guardia di finanza, libri, inchieste giornalistiche, denunce di associazioni, ricerche accademiche. E soprattutto ce lo dicono molte indagini giudiziarie.
E qui sta la contraddizione. Perché se le complicità politiche, le miopie culturali, i pregiudizi etnici, i ritornelli che “qui non siamo a Palermo”, sono stati alla fine costretti in ritirata, lo si deve soprattutto ad alcune grandi inchieste che hanno avuto per protagonista la magistratura. Inchieste sfociate, già dagli anni novanta, nello scioglimento anche al nord di alcuni consigli comunali per infiltrazione mafiosa. E in una montagna di condanne in via definitiva. Solo che da un po’ di tempo sta accadendo qualcosa di preoccupante. Quel che alcune Direzioni distrettuali antimafia fanno, quel che la Direzione nazionale antimafia sostiene, viene azzerato o misconosciuto da una pletora sempre più numerosa di magistrati di ogni ordine e funzione. Magistrati giudicanti di primo e secondo grado, magistrati di Cassazione, ma anche pubblici ministeri. Processi disfatti, negazione dell’esistenza dell’associazione mafiosa su questo o su quel territorio, festeggiamenti dei clan assolti come nella migliore tradizione siciliana degli anni settanta, sgomento e senso di abbandono nei cittadini e nell’opinione pubblica.
All’origine c’è soprattutto una tragica inadeguatezza culturale, che viene a galla, quasi per necessità statistica, quanto più si allargano le inchieste e i processi in cui venga contestato il reato di associazione mafiosa o appaiano indiscutibili i presupposti per contestarlo. Il magistrato medio, al nord, sembra ragionare più o meno come il politico medio. Pensa che la mafia nella sua regione non esista davvero, o comunque faccia cose diverse rispetto al sud. In fondo non conosce davvero la mafia, la sua storia, le sue logiche di azione, le sue costanti, la sua duttilità, il suo linguaggio. E dunque, non conoscendola, non la “riconosce”. Di più, mostra spesso di non conoscere nemmeno la legge istitutiva dell’associazione mafiosa, il famoso 416 bis, che costò la vita al suo ideatore, Pio La Torre. Sicché usa con tutta evidenza una legge che sta nella sua testa ma non nel codice. Il risultato è che per condannare un’organizzazione mafiosa al nord sembrano talora necessarie prove dieci volte più grandi e numerose di quelle sufficienti per ottenere una condanna al sud (al netto delle connivenze, si intende). Recenti clamorose assoluzioni o rinvii in appello, che hanno riguardato un po’ tutte le regioni settentrionali interessate, ci restituiscono scenari che abbiamo conosciuto nella Sicilia di trenta, quarant’anni fa, e di cui tutto il paese, a partire proprio dalla magistratura, ha pagato prezzi altissimi.
Certo, un collaboratore di giustizia come Saverio Morabito, che molto ha spiegato della ‘ndrangheta di Buccinasco e Corsico, ha ben raccontato come fosse facile ai clan garantirsi l’impunità corrompendo giudici e poliziotti; proprio come in quella lontana Sicilia. Ma lì allora e qui oggi i meccanismi principali dell’impunità sembrano essere soprattutto culturali. E’ forse ragionevole sostenere che al nord la mafia non uccide, quando disponiamo di una contabilità impressionante, forse ignota al cittadino comune, ma che un magistrato non può ignorare? E’ ragionevole sostenere che al sud la mafia esercita un potere sul territorio mentre al nord si limita a investire i capitali sporchi e che dunque il reato davvero contestabile sarebbe quello del riciclaggio? E le bombe nei cantieri, e gli incendi dei negozi, e i voti ai politici, e i testimoni terrorizzati? O ancora: è ragionevole sostenere che siccome il tale clan può essere condannato per narcotraffico non vale la pena perdere tempo a dimostrare anche l’associazione mafiosa? A parte i benefici penitenziari impliciti, davvero non si sente la responsabilità di affermare la presenza di un potere mafioso su uno specifico territorio? O questo tocca agli studenti?
E quanto all’articolo 416 bis. Le sentenze più generose vengono giustificate a voce spiegando che il tale personaggio o gruppo non risulta affiliato con certezza a quella singola organizzazione mafiosa. O che non appartiene a un clan riconosciuto storicamente come mafioso. O che non è mai stato condannato in precedenza per associazione mafiosa. E’ un repertorio logico che riscrive per pura auto-immaginazione la legge Rognoni- La Torre. La quale non dice affatto che per essere condannati per associazione mafiosa sia necessario essere passati per un rito di affiliazione. Né che si debba appartenere a una famiglia considerata secolarmente mafiosa. E nemmeno che si debba essere già stati condannati per mafia (!). Quella legge, prodotta dalla profonda esperienza sul campo di La Torre, e da una storia indecente di assoluzioni, e fra l’altro scritta ben prima che Buscetta parlasse di organizzazioni e affiliazioni, chiama in causa solo tre concetti, nitidi e chiari: intimidazione, assoggettamento e omertà. E basta. Non fa riferimento a null’altro.
L’allarme suoni per tutti. Vengono i brividi a vedere il vigore con cui Gian Carlo Caselli nella recente requisitoria al processo Minotauro a Torino ha dovuto, dopo l’assoluzione di primo grado dei clan nel processo cosiddetto “Albachiara”, ricordare l’esistenza della mafia a una città che vide il procuratore Caccia ucciso dalla ‘ndrangheta già trent’anni fa. Il Consiglio superiore della magistratura intervenga. Mandi a scuola tutti i magistrati per studiare un fenomeno sempre più esteso e aggressivo. La professionalità, la professionalità, invocava Falcone, che contro la sua drammatica assenza dovette combattere la più gigantesca delle proprie battaglie. E a proposito. Non è forse il caso di ripetere un monitoraggio delle sentenze della Cassazione come quello promosso da Martelli e Falcone all’inizio degli anni novanta? Allora salvò la Sicilia dalla tirannia sanguinaria di Cosa Nostra. Chissà che oggi non possa salvare il nord dal dominio della ‘ndrangheta.