A Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, la testimone di giustizia Piera Aiello e il giornalista Umberto Lucentini presentano il loro libro.
Di Camilla Caron
“E’ solo che il cuore mi si spezza, tesoro mio, al pensiero che io.. che abbia potuto trovare per tutto questo, parole”.
Sono la fatica della ricerca e la morsa del ricordo che rendono ogni storia autobiografica un prezioso tramite di insegnamenti e spunti di riflessione, perché solo una storia ricca di sudore personale e di vita vissuta può creare un’empatia simile, capace di condividere un pensiero o un sogno, che passi attraverso la parola del Centauro di David Grossman o il grido di ribellione di Piera Aiello. Prima di essere la vedova del mafioso Nicola Atria, la nuora del mafioso Don Vito Atria e testimone di giustizia, Piera è una donna, una madre, una lottatrice, che ha avuto e continua ad avere un ruolo determinante nella lotta contro il sistema di omertà mafioso, per combattere la sottomissione a un potere tradizionale e prevalentemente maschile purtroppo molto diffuso nella sua amata Sicilia.
Il coraggio è fatto di paura, diceva la Fallaci, paura che traspare da una vita densa, ispirata e condizionata da due forze che troppe volte tendono ad essere considerate gli antipodi per eccellenza, e che invece spesso sono facce della stessa medaglia, elementi che si scontrano e incontrano senza mai fondersi completamente, timore e amore, in un tormento quasi catulliano alla “odi et amo”. È il coraggio antico, che incrocia la strada della risolutezza morale e si configura come un atto di grande responsabilità, scansandosi dalla spavalderia e dall’imprudenza, quello che più si lega all’etimologia della parola, cor habeo, ‘avere cuore’. Ed è proprio il coraggio espresso da Piera quando decide di fare le valigie dopo l’assassinio del marito Nicola, abbandonare Partanna, strappare la figlia a un destino di veli neri e omertà e iniziare a collaborare con la giustizia.
Attraverso il libro Maledetta mafia Piera Aiello decide di raccontare la storia delle sue vite, del suo grido di speranza, della sua sete di giustizia, del suo dialogo nelle scuole, del suo impegno contro quell’arretratezza culturale che spesso fornisce una solida base di attecchimento per le organizzazioni mafiose. La mafia le ha tolto la libertà per molti anni, ma la sua voce per una chiamata alle armi è ancora vivida, e grazie alla penna del giornalista Umberto Lucentini prende oggi forma in un libro intenso, presentato mercoledì 24 ottobre a Milano a palazzo Marino, sede dell’amministrazione comunale del capoluogo lombardo. In un anno costellato da anniversari ventennali e trentennali di grandi stragi, i cosiddetti delitti eccellenti, è fondamentale anche sottolineare storie meno eclatanti, che potrebbero essere, erroneamente, considerate minori, ma che racchiudono una forza e una freschezza uniche, di chi quegli anni li ha vissuti sulla propria pelle, ne ha respirato la paura, e lotta ancora oggi anche per portare avanti i sacrifici compiuti da chi oggi invece non c’è più. Più che la presentazione formale di un libro, appare come un giro di contributi ed esperienze, di storie che si intrecciano intorno a quella di Piera, passando dalla pragmaticità di David Gentili, alla sincerità di Ambrosoli, all’emozione del “ragazzo fortunato” Lucentini, alla spontaneità di Rino Germanà, all’esperienza e alla fermezza di Caselli, al calore umano di Don Ciotti, alla semplicità di Piera Aiello. La sede scelta per la presentazione del libro è simbolica e, come afferma David Gentili, presidente della commissione consiliare antimafia, è la dimostrazione del cambio di rotta di un’amministrazione comunale che non vuole più negare l’esistenza dell’espansione mafiosa al nord ma che fissa tra i suoi primi obiettivi quello di inserirsi in un più ampio progetto di lotta al modello mafioso e ai suoi usi; una tendenza che si riscontra nella costituzione del comune come parte civile nei processi contro il clan Flachi e per l’omicidio di Lea Garofalo, nella creazione di uno sportello aperto per alleviare la piaga dell’omertà (legata sia alla convenienza che alla paura), nell’apertura di discussioni su argomenti quali zona grigia e capitale sociale, trattati fino a poco tempo fa come parole di un’antica lingua borbonica che poco si conciliava con gli “intoccabili” salotti del nord Italia. Un’amministrazione che si interroga sul problema del pizzo e del riciclaggio, dell’infiltrazione nelle opere pubbliche e che mira a costituire un’avanguardia della lotta alle mafie, anche grazie all’istituzione del comitato antimafia del comune, composto da esperti esterni e presieduto dal sociologo Nando dalla Chiesa, un passo avanti verso quel consolidamento della sensibilità civile necessario per un impegno antimafia efficace. Lucentini racconta del suo primo incontro con Piera, avvenuto a Marsala nel 1991, della sua rinuncia allo scoop, che troppo spesso oggi domina sui giornali, quando decise di sacrificare un possibile avanzamento di carriera per non mettere a repentaglio la scelta di Piera di diventare testimone di giustizia, dimostrando che un certo tipo di giornalismo è ancora possibile e che accanto alla mafia c’è l’agguerrita fazione dell’antimafia. Lo scetticismo verso un certo tipo di giornalismo scandalistico si ripercuote anche in sala: mancano i flash, manca la risonanza (soprattutto televisiva), manca nel panorama giornalistico nazionale una certa profondità delle storie raccontate, che porta l’opinione pubblica più distratta a non interessarsi a tematiche quali il fenomeno mafioso, o a non considerarle comunque con il giusto peso. L’avvocato Umberto Ambrosoli sottolinea l’importanza di un’educazione alla legalità e quindi l’esempio di Piera, che ci mostra uno dei tanti modi in cui si può dar senso alla propria esistenza in relazione alla collettività. Arriva poi il turno di Rino Germanà, attuale questore di Piacenza, un sopravvissuto, un miracolato, sfuggito a un agguato di mafia nel settembre 1992. Si sente quasi a disagio per essere sopravvissuto, è un siciliano votato al bene tanto da venir ribattezzato “Domenico Savio”, il santo quattordicenne, dai suoi familiari; racconta i suoi primi passi in polizia, il disincanto da ciò che gli sembrava un mondo romanzato, che invece gli apparirà nei suoi lati più crudi durante gli anni di trincea a Palermo, quando giunse a rischiare la vita per le indagini sull’omicidio di Mauro Rostagno. Ma lo racconta con estrema disinvoltura, perché, afferma, la vita va vissuta come un desiderio, non si può pensare di lavorare con il rischio di morire, ma non si può prevedere tutto nella vita, e di conseguenza qualsiasi impegno deve esser necessariamente supportato da passione e sentimento. La parola passa al procuratore capo di Torino Gian Carlo Caselli, che denuncia le ingiustizie rivolte contro i “carrieristi” e i “professionisti dell’antimafia” Falcone e Borsellino, elevandone l’integrità morale e la purezza personale, affermando come nel libro queste ingiustizie escano in tutto il loro splendore. Quelli di Piera sono insegnamenti offerti, non impartiti, con sobrietà e umiltà, da una donna che ha sempre preferito l’impegno al blando quieto vivere, la perseveranza alla rassegnazione, la volontà progressista al ristagno delle vecchie abitudini, un fresco cappello blu cobalto al velo nero. C’è un gran silenzio in sala quando inizia a parlare Don Ciotti, che inveisce contro la politica che ha divorziato dall’etica, contro gli interventi tardivi dello Stato, contro il troppo spesso fragile sistema del programma di protezione dei testimoni. Sono parole di carne quelle di Piera, e lo Stato deve qualcosa, deve tutto ai testimoni di giustizia, che hanno saputo trasformare dolore e fatica in un costante impegno a favore della legalità. Sottolinea poi la natura clericale della casa editrice, la San Paolo, simbolo che la chiesa sta iniziando a interrogarsi riguardo a queste tematiche, segno che spesso si può riscontrare anche il coraggio del cardinale Borromeo e non solo la codardia di don Abbondio e della sua pelle tarata su un metro soltanto, quello della pelle da salvare, un’antitesi che, uscendo dalla fantasia manzoniana, potrebbe visualizzarsi nell’opposizione tra Monsignor Francesco Montenegro che ha vietato lo scorso luglio le esequie religiose per il boss mafioso Giuseppe Lo Mascolo e padre Agostino Coppola, parroco di Carini arrestato nel 1976 perché complice del boss Luciano Liggio. L’intervento finale è di Piera, che ringrazia i suoi genitori, per averle donato un solido sistema di valori che le ha permesso di liberarsi dalla morsa mafiosa e abbracciare la legalità, la sua scorta, l’arma dei carabinieri e i suoi “angeli custodi”, il suo mentore e guida Paolo Borsellino, lo “zio Paolo”. Pone l’accento sull’importanza di comunicare i valori di giustizia e integrità alle nuove generazioni: i ragazzi devono sapere, devono interrogarsi, devono sognare, devono credere.Devono sapere che non si può vivere come gli animali, soggiogati dai boss, devono credere che se si vuole la mafia può essere combattuta e vinta; devono sapere che è difficile combattere, convivere con le proprie scelte, ma soprattutto che ci si può liberare dalla mafia. Ed è per questo che Piera inizia a girare per le scuole, per porre le basi di una cultura dell’antimafia, perché autonomia e sapere aiutano a svincolarsi dalle cinghie del sistema mafioso, ed è necessario che la lotta alla mafia non si riduca a un mero sforzo dei singoli, ma si configuri come un vero movimento culturale e civile.
Al termine della presentazione, lungo il deflusso verso l’uscita, una signora si ferma davanti a un paio di ragazze, rassicurandole sull’esistenza della bellezza nel mondo e spronandole a ricercarla tra i rovi creati da tutti questi mali; e si tratta proprio della bellezza di cui ha parlato Don Luigi Ciotti, che rappresenta il punto di incontro tra ciò che è giusto e ciò che è vero, e in tal senso giustizia ed estetica sono facce della stessa medaglia, che stupisce, incanta e risveglia gli animi. I ragazzi devono sapere che ricercare questa bellezza è ancora possibile