nicotra

Quella di Mariano Nicotra è la storia di un imprenditore che si è rifiutato di pagare il “pizzo” alle organizzazioni mafiose. Ma che si sente “dimenticato” dallo Stato, come altri suoi colleghi. Vittime due volte.

Mariano “nasce” imprenditore, nell’azienda gestita a Messina dal padre Giuseppe, che tramanda al figlio questa passione e lo avvia all’attività sin da ragazzino. E questa è stata sin da subito una scelta di vita: una vita che vedeva alternativa il diventare un criminale. “L’adolescenza a quei tempi non c’era. Si doveva scegliere subito la strada: o  del lavoro o della delinquenza”.

Il padre era un ottimo cottimista, aggiudicandosi diversi lavori e iniziando a farsi “un nome” nel campo edile “con un grande esempio di legalità, per quello che erano pure i tempi, perché all’epoca non era pensabile avere in famiglia uno “sbirro”, qualcuno che aveva il coraggio di denunciare”. Certo, perché fare impresa nella Sicilia del secondo dopoguerra era tutt’altro che semplice, ed era difficile tracciare un confine netto tra legalità e illegalità, specialmente per un padre di famiglia con quattro figli.

E dal padre imparò subito il mestiere, standogli vicino nei vari lavori. Tutto ciò lo portò nel 1989, a soli 22 anni, a diventare un imprenditore autonomo. Mariano sa fare bene il suo lavoro e l’azienda cresce sempre di più “non avvalendomi mai di raccomandazioni, né di agganci politici, di loschi affari o di aggiudicazione con turbativa d’asta” ci tiene a precisare. L’impresa diventa “di fiducia” di molti enti, e rimane sempre “pulita” e non indagata quando altre aziende, presenti negli stessi cantieri, vanno sotto processo. Il volume d’affari e le “commesse” aumentano, tanto da avere appalti pubblici anche dalle Ferrovie dello Stato.

Sono le sue qualità, umane e imprenditoriali, che aiutano l’azienda a crescere, “anche se le difficoltà ci sono state”. Sì, perché Mariano cresce in uno dei quartieri a più alta densità mafiosa della città, in cui c’era la guerra tra le cosche per il controllo di Messina, quando il boss Gaetano Costa aveva deciso di spartirsi la città con altri capi clan. E con qualcuno dei futuri affiliati alla criminalità organizzata “andavamo a scuola assieme, giocavamo a nascondino, giocavamo a pallone”. Ma crescendo giunge il momento del distacco da questo gruppo: però è tutt’altro che facile, perché “possono anche fuorviare, perché un ragazzo lo immagina come un “mito”, come un riferimento da seguire e poi c’è chi (come Mariano, ndr) capisce che quella non è la strada da percorrere”. Crescendo così, però, ha imparato anche come funziona l’estorsione, come ti tengono sotto scacco l’azienda.

Un punto di svolta importante si ha con quella che Mariano definisce “l’era del pentitismo”, dagli anni ’90 in poi. In questa fase le nuove leve, i nuovi affiliati cercano la ricchezza, e diventano come dei “cani sciolti”, che non guardano in faccia nessuno.

È allora che le cose iniziano a peggiorare, per Mariano e per la sua azienda. Nel ’95, infatti, subisce la sua prima tentata estorsione, dopo essersi aggiudicato una commessa per il recupero del patrimonio edilizio per ben 500 milioni di lire. I clan messinesi, dopo alcuni atti vandalici in cantiere, si presentarono nella persona di Francesco Picco, affermando che l’imprenditore avrebbe potuto contare su di lui per qualunque problema. La volontà era quella di far diventare Mariano Nicotra un imprenditore legato ai clan: infatti venivano chiesti 50 milioni per “averlo lasciato in pace” negli anni precedenti, più 5 milioni per tutti gli appalti che si sarebbe aggiudicato nel futuro.

La reazione di Mariano fu ineccepibile: andò subito dai Carabinieri a denunciare, e notò la loro incredulità nel vedere un imprenditore denunciare i clan, poiché solitamente era (o forse bisognerebbe usare “è”) l’Arma a doverne convocare uno per chiedere spiegazioni su questi contatti “sospetti”. L’appoggio dei Carabinieri fu completo, ed organizzarono la consegna del denaro all’interno di un magazzino, dove intervennero ed arrestarono gli estorsori.

Da quel momento la sua vita fu segnata: iniziò a subire minacce sempre più pesanti, non solo personali ma anche nei confronti della famiglia. Ma le parole che Mariano pronuncia sono esemplificative della persona che è e di ciò che ha passato: “Il mio non è stato un atto di eroismo. Il mio è stato un atto di egoismo. Perché per non essere ferito nel mio orgoglio, nella mia dignità di uomo e di imprenditore, io, senza pensarci due volte, ho rischiato di mettere a repentaglio, e l’ho messa, la vita della mia famiglia, per una grande sete di correttezza, di libertà. Quindi non mi reputo un eroe, ma un poco un egoista.”

Ci si immaginerebbe che, a quel punto, gli amici, i vicini e i colleghi, si stringano attorno a lui per manifestare solidarietà e approvazione per il suo comportamento. Ma non erano solo i clan, purtroppo, a mostrare ostilità a Mariano. Dopo la denuncia ci fu una sorta di “ostracismo” nei suoi confronti anche da parte della cosiddetta società civile: “Tra tutto il quartiere, i miei colleghi c’era chi evitava di salutarmi, chi salutava con la mano nascosta per non fare un torto al malavitoso di turno” fino ad arrivare alle persone che, entrando nello stesso bar dove l’imprenditore stava prendendo il caffè, dicevano “Ma che puzza che c’è qui” o dandogli l’appellativo di “sbirro”. Mariano racconta, con un sorriso amaro, che, dopo che aveva parcheggiato la sua macchina, attorno ad essa c’era sempre posteggio: “Con il pretesto di buttare la spazzatura, anche a mezzanotte, i vicini scendevano a spostare la macchina dalle vicinanze della sua”.

Tutto ciò lo portò a non poter più frequentare i locali dove era cresciuto, costringendolo a dover cambiare le sue abitudini, fino a doversi trasferire in un’altra cittadina della provincia messinese. Il messaggio che passa è forte e chiaro: sono i cittadini perbene, onesti, quelli che vogliono cambiare le cose a doversi spostare, non i clan.

Un anno dopo questi fatti, nel 1997, ci fu un altro episodio molto più inquietante. Mentre lavorava per la provincia regionale di Messina, subì un’altra richiesta di estorsione, ma stavolta da un geometra del cantiere, e dunque da un “rappresentante della provincia”. 15 milioni era la sua richiesta, pari al 5% della commessa.

“Mai mi sarei potuto immaginare che anche tra le persone perbene… e lì inizi a pensare a quella famosa linea di demarcazione tra il bianco ed il nero che è molto confusa… un signore, geometra, responsabile dei lavori, ebbe la sfacciataggine, l’atto ignobile, indegno sia come uomo che come rappresentante della provincia, per un tozzo di pane che gli era stato garantito, mi chiese una percentuale sull’importo dei lavori che aveva avuto. Percentuale pari al 5%, quindi circa 15 milioni. Questo li voleva prima che venisse emesso il saldo di pagamento.”

La reazione di Mariano fu, ancora una volta, esemplare. Si recò dai Carabinieri per denunciare e, d’accordo con essi, simulò il pagamento del “pizzo” all’estorsore, il quale venne immediatamente arrestato. Ma la cosa che lo lasciò maggiormente con l’amaro in bocca, è il fatto che il suo estorsore abbia potuto usufruire del patteggiamento, istituzione che non significa ammissione di colpevolezza. “Ma cosa diventa la vittima in quel momento per lo Stato?” – si chiede con molta amarezza – “Nulla.” è costretto a rispondersi.

“Ma continuo a lavorare, orgoglioso di quello che ho fatto. Non ho mai avuto indagini dalla Guardia di Finanza, multe per manodopera in nero. Mai.”

Passo successivo avviene una decina di anni dopo. Nel 2008 si aggiudicò un lavoro per il comune di Messina, le “Case Arcobaleno” di Santa Lucia sopra Contesse. Dopo poco alcuni suoi soci gli dissero di essere stati avvicinati dai clan per richieste di estorsione, e Mariano mise in chiaro, come se ancora ce ne fosse bisogno, che lui avrebbe denunciato. La risposta mafiosa non si fece attendere, con diversi atti di intimidazione in poco tempo: il box di lavoro smontato, un escavatore incendiato e molti altri. Dopo tutto ciò, si presentarono a lui alcuni affiliati del clan Spartà per la richiesta “ufficiale” del pizzo.E Mariano, per l’ennesima volta, si recò dai Carabinieri per denunciare l’accaduto, facendo scattare l’operazione “Alexander”.

I clan decisero di agire più pesantemente contro di lui. 5 colpi di pistola, alle 5.15, contro la sua vettura mentre tornava dalla colazione al bar, come sua abitudine. Un “atto forte, non per volermi uccidere, ma per volere dimostrare che in qualunque momento lo avrebbero potuto fare, e che “certe cose” non si fanno, e che bisogna dare un peso a chi comanda nella zona”. Da lì gli venne assegnata la scorta, anche se non ne era convinto, “mi avrebbe procurato dei danni. Perché era come avere scritto “io ho denunciato”. Chiunque avrebbe voluto ristrutturare casa, chiamando Mariano Nicotra, potrebbe pure pensare che mi fanno saltare casa.” Scorta che gli venne revocata nel giugno 2013, in quanto non sussistevano più pericoli per la sua persona. L’assenza di pericoli è però opinabile, visto che eventuali ritorsioni possono tuttora verificarsi in seguito alle sue dichiarazioni del dicembre 2014.

Mariano poi, chiude l’intervista con un appello: “Non abbiamo bisogno di professionisti dell’antiracket, abbiamo bisogno non solo di repressione, ma di tanta prevenzione: e la prevenzione si fa, utilizzo un termine forte, “usando” i testimoni di giustizia, le vittime di mafia che hanno tanta esperienza, per farli andare nelle scuole a parlare. C’è bisogno di sensibilizzare, per far capire che oltre alla denuncia, (e dunque a essere onesti) ci può essere la convenienza, magari che la Prefettura o le scuole si riforniscano nel tuo negozio, iscritto nell’elenco del consumo critico.

Io voglio essere libero. Ho messo a repentaglio la mia vita e quella della mia famiglia per continuare ad essere una persona libera, con la capacità da imprenditore di valutare l’affare migliore, ma restando sempre ligio alle regole.”

Si può dire che chieda troppo?

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