10948102_10205908900466633_247732605_oLunedì 26 gennaio. L’Università Statale di Milano ospita un incontro organizzato dall’associazione studentesca L’Alligatore. Gli studenti di giurisprudenza che compongono l’omonima redazione hanno fatto sedere allo stesso tavolo alcuni importanti relatori per parlare di “strumenti di contrasto alla criminalità organizzata”. In ordine di apparizione nell’ aula 208: Bernardo Petralia, procuratore aggiunto a Palermo; Bruno Giordano, giurista e docente presso la Statale; Antonino di Matteo, il pm impegnato nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia; Lirio Abbate, giornalista dell’Espresso e autore di fondamentali inchieste sul fenomeno mafioso, non ultime quelle su Mafia Capitale.

La preside della facoltà di Giurisprudenza saluta e introduce l’incontro. Si congratula con gli organizzatori, che definisce “la crema dei nostri studenti perché sono così interessati ai temi di attualità che si sono impegnati a organizzare questa iniziativa”. Iniziativa che è costata fatica e non poche difficoltà, come ammette uno dei redattori dell’Alligatore. Non mancherà certo la soddisfazione, però, malgrado la fatica: l’aula è gremita, solo posti in piedi.

Bruno Giordano, a cui va il compito di moderare, presenta da primo Petralia. Il procuratore ricorda gli esordi  della sua esperienza in magistratura a fianco di Giangiacomo Ciaccio Montalto, magistrato milanese ucciso dalla mafia a Valderice, Trapani. E parlando di strumenti esalta l’introduzione della legge Rognoni-La Torre, legge che riconosce l’associazione mafiosa e consente la confisca dei beni ai mafiosi. Un’innovazione rivoluzionaria.

Altrettanto rivoluzionario strumento di lotta è la memoria, scandisce con forza Lirio Abbate. Nell’anniversario dell’assassinio del giornalista Mario Francese, il cronista sotto scorta de L’Espresso rammenta che “Ricordare i sacrifici di uomini e donne, servitori dello stato, e la morte di persone inermi, serve per non dimenticare errori che non devono essere più ripetuti”. “I mafiosi sanno adattarsi alla realtà che cambia, sanno che la violenza non porta consenso sociale”: hanno imparato la lezione stragista, ora stanno in silenzio corrompendo”. Abbate punta il dito su Roma, la cui amministrazione “è stata piegata per anni” dagli interessi mafiosi: si veda, Mafia Capitale.  Ma Roma, che conosce i protagonisti di quelle indagini, dimentica chi siano, dimentica BR e neofascismo. E i cittadini, allora, hanno imparato la lezione? Chiude Abbate: “Usate la memoria, l’importante è che poi la tramandiate”.

Interviene quindi Antonino Di Matteo. “Siete bombardati da notizie che raccontano una realtà che non c’è, vi rappresentano i magistrati sovversivi che vogliono fare politica. Credo quindi che questi incontri siano utili a voi cittadini per recuperare un rapporto di verità coi magistrati ma anche a noi, perché ci ricordano che lo scopo del nostro lavoro è rendere un servizio alla collettività, la giustizia. Il nostro è un ruolo di servizio, non di potere“. E prosegue: “Cosa nostra è l’unica organizzazione criminale che per un biennio (1992-1993, ndr) ha fatto politica a suon di bombe”, chiosa il pm che da sempre si occupa di mafia siciliana.  Ricorda le parole di Ciampi dopo le stragi – il timore di aver rischiato di subire un colpo di stato -, ricorda Andreotti sette volte presidente del consiglio, ricorda Cuffaro a capo della regione Sicilia eppure condannato a sette anni per favoreggiamento alla mafia. “Vi prego quindi di dimenticare lo stereotipo di una mafia che opera solo in Sicilia: Cosa nostra ha condizionato la politica nazionale ai suoi più alti livelli istituzionali. Ci sono sentenze definitive, che hanno cioè passato il vaglio della Cassazione, il cui contenuto vi sfuggirà in buona sostanza perché il potere in Italia, di fronte a certe acquisizioni giudiziarie, è solito alzare il muro di gomma della confusione, dell’indifferenza e del silenzio per attutire la verità“. Andreotti, per i più, infatti, risulta assolto. Non prescritto ma assolto. Basterebbe andare a rivedersi le prime pagine delle principali testate giornalistiche italiane.

“Arrivai a Caltanissetta subito dopo le stragi e in direzione distrettuale antimafia mi trovai a interrogare Salvatore Cancemi, il collaboratore che aveva definito i dettagli operativi delle stragi. Diceva: saremmo stati una banda di sciacalli se non avessimo avuto il sostegno di politici, imprenditori, professionisti… Le istituzioni, oggi, hanno la medesima consapevolezza di quanto sarebbe importante recidere definitivamente questi rapporti? Solo così diventa possibile il salto di qualità ma credo che la risposta sia tuttora negativa”. E argomenta con durezza: “c’è chi contrappone l’operato dei magistrati di oggi a quello dei magistrati di ieri, i magistrati morti, e critica i magistrati di oggi con gli stessi “argomenti” con cui criticava i magistrati di ieri. Ma oggi, solo oggi, i magistrati di ieri vanno bene, non foss’altro che per attaccare i colleghi vivi”. E ritorna alla mente la lezione della storia che è da imparare, quella di cui riferiva Abbate.

Le considerazioni di Di Matteo sono amare e suonano brutali. “La situazione è peggiorata rispetto a vent’anni fa. Un tempo i politici si riparavano dietro l’attesa della sentenza; oggi, malgrado sentenze definitive, certi politici non sono stati allontanati ma discutono di riformare la Costituzione su cui anche Paolo Borsellino aveva giurato”.

C’è ancora tanto da fare.

 

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