Schiamazzi contro i giornalisti, insulti alle parti civili e provocazioni verso la magistratura: si è concluso così il rito ordinario di Infinito, in un pomeriggio freddo e confuso di inizio dicembre.
Il risultato della sentenza di primo grado del maxiprocesso che ha portato alla sbarra affiliati e collusi fra Milano e Reggio Calabria segna una svolta fondamentale nel meccanismo di riconoscimento dell’unitarietà della criminalità calabrese dal Sud al Nord della penisola: quarantuno condanne e tre assoluzioni, con pene che vanno da 3 ad un massimo di 20 anni. Una realtà criminale nata in meridione ma rafforzatasi al Nord con le seconde generazioni che nella capitale morale del paese hanno trovato terreno fertile per i propri affari: è qui, nella padanissima provincia di Milano, che la ‘ndrangheta apre aziende di movimento terra e ricicla in edilizia e ristorazione il denaro sporco ricavato dal racket e dall’usura. Non solo: la ‘ndrangheta in Lombardia è capace anche di assorbire storiche aziende locali, come la Perego Strade dell’imprenditore comasco Ivano Perego, condannato a 12 anni di detenzione con aggravante in concorso esterno per associazione mafiosa (416 bis) accusato, fra le altre cose, di aver appoggiato il boss Salvatore Strangio capo della locale di Seregno nei suoi affari, tra cui la corsa gli appalti di Expo 2015. Condannato a 15 anni Andrea Pavone, il contabile della Perego Strade con alle spalle un curriculum di tutto rispetto: la sua carriera passa anche da Busto Garolfo, insospettabile paese a ovest di Milano. Pavone, infatti, alle soglie del duemila è direttore generale della longeva azienda di prosciutti Rondanini Srl.
Rho, Busto Garolfo, Arluno, Nerviano, Legnano, San Vittore Olona, Inveruno, Marcallo Con Casone sono solo alcuni dei paesi coinvolti nel maxi processo Infinito. Condannato a 10 anni e 10 mesi Cesare Rossi, 70enne originario di Tropea e residente a Nerviano: qui, nella piccola cittadina di 18mila abitanti bagnata dall’Olona, si trova il magazzino del signor Rossi – uomo distinto, capelli bianchi e baffo curato – in cui si svolsero importanti summit della ‘ndrangheta. Gli affiliati sfruttavano la tipica tradizione calabrese della macellazione del maiale per potersi incontrare senza destare particolari sospetti fra gli autoctoni lùmbard. Tradizione e folclore: su questi due concetti per un anno e mezzo si è basata la linea difensiva di Pino Neri, referente della ‘ndrangheta calabrese in Lombardia nonchè avvocato tributarista con studio a Pavia. Condannato a 18 anni, nell’ottobre 2009 Neri partecipa al tristemente celebre summit di Paderno Dugnano, organizzato al circolo Arci Falcone e Borsellino. In quell’occasione, a pochi mesi di distanza dall’uccisione di Carmelo Novella, boss secessionista morto sparato a San Vittore Olona, Pino Neri prende le redini del controllo sulla Lombardia riconfermando la stretta dipendenza della ‘ndrangheta padana alla casa madre. E a Vincenzo Novella, figlio del boss, tocca la condanna a 16 anni, accolta dal giovane con un ghigno sul volto: in certi casi il carcere può addirittura essere un vanto sul proprio cv. Sempre a Pavia è legata la figura di Carlo Antonio Chiriaco, ex direttore sanitario dell’Asl condannato a 13 anni di reclusione. Ma Chiriaco non è solo un professionista in mano alle cosche: la sua è figura chiave per comprendere quel cono d’ombra che lega le ‘ndrine calabresi agli esponenti della politica locale, uomini in giacca e cravatta che frequentano il Pirellone, realtà emersa ultimamente anche dalla nuova indagine che ha portato all’arresto di Domenico Zambetti. Come nel caso di Angelo Giammario, il consigliere regionale Pdl il cui nome dall’indagine Infinito guidata dal pm antimafia Alessandra Dolci risulta essere legato, oltre a Neri e Chiriaco, anche a Cosimo Barranca, capo locale di Milano. Al termine della lettura del dispositivo, pronunciato nell’aula bunker del carcere di San Vittore, la platea di parenti e amici degli imputati è esplosa in un ironico plauso rivolto ai giudici dell’ottava sezione penale. “Siete voi i mafiosi, dovete andare voi in carcere”, hanno urlato in coro ai magistrati i detenuti da dietro le sbarre. Ma la condanna è stata emessa, e ai giudicati colpevoli non resta che rassegnarsi all’idea di dover scontare i propri anni in attesa dell’appello previsto fra non prima di un anno.