Come la storia insegna, all’umanità piace curare piuttosto che prevenire. E per giustificare questo fatto, molti glorificano il detto che è sempre “meglio tardi che mai”. Il caso dei 43 studenti di Ayozinapa, nello stato messicano di Guerrero, esemplifica tutto questo. In Messico si muore da anni, ma il clamore di questa tragica vicenda non può lasciare tranquilli nemmeno i più indifferenti.
La versione ufficiale dei fatti, riportata il 7 novembre scorso dal Procuratore Generale della Repubblica, in realtà non convince. Secondo le confessioni di 3 sicari i 43 studenti normalistas di Ayotzinapa, sarebbero stati consegnati dagli agenti della polizia municipale di Iguala al gruppo criminale dei Guerreros Unidos. Questi li avrebbero uccisi, fatti a pezzi, bruciati e buttati i loro resti in una discarica nella località di Cocula, a pochi chilometri da Iguala. Le questioni in sospeso sono troppe e troppo gravi per non indagare più a fondo. Perché i vertici istituzionali del paese, sia statali che federali, non hanno destituito il sindaco di Iguala e la moglie, considerati i mandanti della strage, che da tempo erano in stretto contatto con la criminalità organizzata locale? Come è possibile che nessuno, compresi i servizi di intelligence messicani, non sapessero nulla di questa relazione? Qual è stato il ruolo dell’esercito? I parenti delle vittime cercano risposte da ormai molti giorni e sotto la spinta di una mobilitazione che è diventata ormai internazionale, qualcosa sembra muoversi.
Proprio in questi giorni, anche dal nostro paese arrivano segnali decisi di pressione verso il governo di Enrique Peña Nieto affinché faccia luce sulla vicenda. Lunedi 24 novembre, una delegazione creata e promossa dagli architetti Anna Steiner e Franco Origoni, ha consegnato al Console Generale del Messico a Milano un appello “per sapere la verità sulla sorte degli studenti messicani sequestrati dalla polizia e consegnati ai narcos”. Numerose firme illustri hanno dato forza all’appello, come quella del presidente del gruppo del PSE al Parlamento Europeo, Gianni Pittella; il Presidente della Commissione Sanità del Senato Emilia Grazia De Biasi, il presidente dalla commissione antimafia di Milano e professore universitario Nando dalla Chiesa; il leader del movimento studentesco del ’68 milanese Mario Capanna. Durante l’incontro con la delegazione il Console Marisela Morales Ibañez, già Procuratore Generale della Repubblica del Messico, spiega come il governo federale stia facendo il possibile per consegnare una verità definitiva e credibile ai familiari delle vittime. A questo riguardo un fatto sicuramente positivo, che d’altra parte mette in luce i limiti investigativi e giudiziari messicani, è l’accordo che il governo di Città del Messico ha stipulato con la commissione interamericana dei diritti umani, chiedendo “assistenza tecnica internazionale” soprattutto in tema di diritti umani. L’obiettivo è quello di formare un pool di esperti nel campo della criminologia, della balistica, della sociologia, della psicologia e della scienza politica.
Intanto l’associazione Rete della Conoscenza insieme a Libera hanno aderito insieme ad altri movimenti alla campagna di protesta “Vivos se lo llevaron y vivos los queremos” per manifestare la volontà di chiarezza e trasparenza sul caso. Il 26 novembre, a due mesi esatti dall’accaduto, l’indignazione, la protesta e il ricordo dei 43 giovani hanno preso forma davanti all’ambasciata messicana di Roma, al consolato di Milano e davanti alle prefetture di Torino, Napoli, Bari, Palermo, Bologna, Pisa e Firenze. Una mobilitazione che fa da scia alle diverse manifestazioni che si sono susseguite in Messico e in numerosi altri paesi.
Uno degli slogan di questi giorni è stato “non basta più indignarsi”. È vero non basta più, ma non doveva bastare già 5 anni fa. A parte una schiera di associazioni e movimenti che si occupano di diritti umani, di contrasto all’illegalità, e a parte qualche giornalista, chi ha parlato di Messico negli ultimi 10 anni? Dov’era l’informazione, l’università? Ma soprattutto dov’erano le organizzazioni internazionali?
Da quando l’ex presidente Felipe Calderon avviò la cosiddetta “guerra alla droga” contro i cartelli, in Messico sono morte circa 80 mila persone e scomparse almeno 23 mila. Una strage, una guerra infinita. I cartelli messicani inondando di cocaina l’Europa da diversi anni, facendo concorrenza ai colombiani e tessendo relazioni anche con le nostre mafie. Gestiscono la tratta di esseri umani e di migranti del Centro America; fanno affari negli Stati Uniti, in Asia e in Australia. In Messico hanno in mano comuni, stazioni di polizia; hanno a libro paga sindaci, poliziotti, politici da decenni. Si erigono regge, si costruiscono cimiteri che sembrano resort di lusso; pagano cantautori per farsi fare canzoni che li glorificano. Queste cose succedono da anni e in pochi ne hanno parlato.
Davanti al consolato messicano di Milano, mentre i manifestanti mostrano le foto dei ragazzi di Ayotzinapa, diverse voci leggono i nomi delle vittime con il megafono. Dietro, poco più in là, la vita milanese scorre normale e la gente cammina svelta senza nemmeno chiedersi cosa stia succedendo. Quando l’indifferenza dell’umanità lascerà spazio alla consapevolezza? Il Messico non può permettersi altri martiri, e nemmeno noi.