Mercoledì 17 febbraio è morto Raffaele Cutolo, padre della Nuova Camorra Organizzata, nel carcere di Parma dove era detenuto al 41bis. Così uno delle figure più discusse della Camorra esce di scena, senza mai pentirsi e portando con sé tutti i segreti di una parte d’Italia buia negli anni del dopo guerra. Il suo nome sarà per sempre legato alle strage di innocenti: uccise il medico e consigliere comunale Mimmo Beneventano nel 1980 perché si oppose alle infiltrazioni camorriste proprio nel territorio controllato da Cutolo. Non ebbe pietà neanche per Marcello Torre, sindaco di Pagani che sfidava la camorra che voleva impossessarsi degli appalti pubblici, e neanche per Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale colpevole di averlo fatto perquisire. Diede l’ordine nel 1981 di sparare alle gambe al cronista sportivo Luigi Necco: aveva reso pubblica la notizia di un calciatore dell’Avellino, Juary, che al processo aveva portato una medaglia a Cutolo da parte del presidente della squadra.

La notizia della morte del boss arriva anche a don Maurizio Patriciello, parroco di San Paolo Apostolo a Caivano, un comune nel napoletano situato nella Terra dei Fuochi. Noi di Stampo Antimafioso abbiamo voluto riportare le sue parole:

“Mercoledì delle ceneri, Raffaele Cutolo esce di scena. “ Polvere sei e polvere tornerai”. Ti sei illuso, don Rafè, hai illuso; hai ucciso, hai fatto uccidere, tanti ti avrebbero volentieri ucciso. Hai comandato, sei stato obbedito. O’ professore, ti chiamavano, e a te, piaceva da impazzire. Quanto morti di sei caricato sulle spalle? Migliaia. Napoli e dintorni negli anni 80’ erano un mattatoio. Gli obitori sempre pieni. Si fa l’abitudine a tutto, questo è il guaio. Anche a passare davanti a un morto ammazzato e lasciarsi incuriosire. Sei stato vezzeggiato e odiato, cercato e temuto. Il castello. Lo bramasti fin da bambino quell’antico maniero mediceo che sovrasta Ottaviano, il tuo paese.

Era il tuo sogno, il tuo riscatto, la tua rivincita, doveva essere a tutti i costi tuo. Ci riuscisti. Poi lo Stato, in un sussulto di dignità, se lo riprese; adesso in quelle antiche sale si parla di legalità, di ambiente, di lotta alla camorra. Aversa, bella città normanna, alle spalle della cattedrale, si erge, maestoso, l’ospedale psichiatrico criminale. Ti rinchiusero là, te ne uscisti pochi mesi dopo in modo pittoresco. I cancelli furono aperti da una bomba. Uno spaventoso boato assordò la città. Era il 5 febbraio del 1978. Noi eravamo semplicemente terrorizzati. Nuova camorra organizzata, o, meglio, N.c.o. fu il nome del nuovo sodalizio camorristico da te inventato. Gente sanguinaria, folle, tanti dicono delle vere belve.

Mi viene da ridire, perché oggi quella stessa sigla è stata adottata dai ragazzi che lottano contro la camorra e sta a significare Nuova cucina organizzata. Il tempo è un gran mattacchione. Un burlone che ti prende in giro senza fartene accorgere. Ci sei cascato anche tu, don Rafè. L’arbitro ha fischiato, hai abbandonato il campo, manco a farlo apposta, nel giorno delle ceneri. Ti hanno fatto credere di essere tutto di un pezzo, perché, come già Totò Riina e altri “grandi” mafiosi, non ti sei mai pentito. Un vero camorrista non deve dare segni di cedimenti.

Sei stato ingannato e hai ingannato fino alla fine. Camorra e politica, camorra e affari, camorra e mafia, camorra e brigate rosse. Soldi, soldi, soldi. Una noia mortale. Oggi sui social a tuo riguardo c’è una baraonda infernale. Si legge tutto e il contrario di tutto. Gli “onesti” te ne dicono di tutti i colori. Quando non corre rischi, tanta brava gente trova il coraggio di uscire allo scoperto, maledice, augura il carcere a vita al camorrista vivo e l’inferno eterno a quello morto. Che vuoi? “ Il coraggio uno non se lo può dare”, si lasciò scappare una volta don Abbondio. È vero. Non manca, ovviamente, chi ti osanna e già sta sognando il tuo ritratto sulla facciata di una palazzina popolare. Diglielo tu, ti prego, don Rafè, che cambino strada, che non vale la pena campare come hai campato tu. Quanto male, Professò, quanta confidenza ti sei preso con la vita altrui; quante lacrime hai fatto scorrere.

Gennaro era mio amico d’infanzia, stesse abitudini, stessi sogni, stesse marachelle. Non era un delinquente, no. Ventenne, incappò in un gruppo che, da parte tua veniva a colonizzare i nostri paesi, innescando la guerra con i rivali autoctoni, il tristemente noto clan dei Casalesi. Ne rimase ammaliato. Decise. Non lo vedemmo più, finì in carcere per più di un decennio. Entrò che era un caporale, uscì con i gradi di colonnello. Era diventato silenzioso, prudente, diffidente. Prete da pochi mesi, lo incontrai alla festa di san Maurizio. Gli corsi incontro: « Gennaro – gli dissi – lo sai che sono diventato prete?» Mi fissò con una tristezza immensa, si guardava attorno sospettoso, comunicando con cenni della testa con la sua scorta armata. « Si, me l’hanno detto, sono contento, auguri. Prega anche per me» tagliò corto. Non lo vidi più. L’anno dopo fu trucidato a pochi passi da casa nostra. Non aveva ancora 40 anni. Don Rafè, ricevesti in dono un’ intelligenza non comune. Chissà quanto bene avresti potuto fare, quanta gioia avresti potuto sperimentare e donare. Indietro non si torna. L’arbitro ha fischiato, la partita è finita. Adesso sei al cospetto del buon Dio. Con lui non puoi più barare. Mi piace pensare che, chissà, ti starà mostrando l’altra tua vita, quella che aveva previsto per te e che tu, nel tuo delirio di arbitraria, sciocca, sanguinaria, onnipotenza, non hai mai vissuto. Chissà. Forse il purgatorio è questo”.

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