di Osservatorio No Mafie (Libera Biella)

Tra le indagini più importanti emerse dal lavoro dell’Osservatorio di Libera Biella e di NOmafiebiella, che dal 2012 ha analizzato e raccolto circa 3500 articoli tratti dalla stampa locale, c’è quella che ha riguardato la famiglia Raso: l’operazione denominata “Alto Piemonte” rappresenta una sorta di pietra miliare per il Biellese.

Non soltanto per le dimensioni dell’indagine, che ebbe effetti su 7 persone residenti in provincia, ma anche perché quello nei confronti di Antonio Raso, il capostipite della famiglia, è stato il primo processo per mafia che si è svolto nel Tribunale di Biella. “Alto Piemonte” risale al 2016. Sette dei 18 procedimenti cautelari eseguiti in luglio riguardano persone che vivono in provincia. L’operazione, guidata dai pubblici ministeri torinesi Monica Abbatecola e Paolo Toso, è il risultato della collaborazione tra la Squadra Mobile di Biella, la Procura di Torino e i Carabinieri di Volpiano.

Le indagini, articolate in più territori, portano alla luce reati gravi: estorsione, traffico di droga, incendi, detenzione di armi, sequestro di persona e tentato omicidio aggravato. I biellesi implicati sono Antonio Raso, residente a Dorzano, presente in Piemonte da più di 40 anni, i figli Giovanni Raso, detto Rocco, Diego Raso, un altro fratello Giovanni Raso, Enrico Raso, Giuseppe Avenoso (compagno della figlia di Antonio) e Antonio Miccoli, braccio destro di Diego Raso. Tutti sono sospettati di fare parte della cellula ‘ndranghetista individuata come la “locale di Santhià”, che gestisce traffici nelle province di Torino, Novara, Biella e Vercelli.

L’inchiesta viene conclusa nel novembre 2016 e accerta che la “mano mafiosa” dei Raso è attiva nel Biellese dal 2009: a quegli anni risalgono le estorsioni ai danni di commercianti e il traffico di droga gestito tra Biella e Vercelli. Nel marzo dell’anno successivo nuovi tasselli si aggiungono al mosaico: le Forze dell’Ordine rintracciano Suvad Operta, di origine bosniaca, considerato il “braccio operativo” della cosca, contro cui era stato emesso un mandato di cattura europeo. Nello stesso periodo uno dei filoni dell’indagine rivela i rapporti tra due componenti della cosca e alcuni dirigenti della Juventus, implicati nel business del bagarinaggio.

Intanto a Biella Antonio Raso viene incriminato. Con l’operazione che lo individua tra i responsabili degli atti illeciti rilevati nell’indagine, viene posto ai domiciliari: la sua età lo consente, è del 1942. Il suo avvocato, Ugo Fogliano, chiede e ottiene che il processo si svolga a Biella. La prima udienza si tiene nel febbraio 2018.

In seguito, dalle rivelazioni del pentito Cosimo Di Mauro, genero di Antonio Raso, è stato possibile ricostruire le attività della famiglia: detenzione illecita di armi nella Cascina Mosè tra Dorzano e Cavaglià, furti, rapine, riciclaggio, tentati omicidi, lesioni, usura, sequestro di persona, commercio di sostanze stupefacenti.

Di Mauro durante un interrogatorio avrebbe rivelato anche l’intenzione di gambizzare, nel 2015, il pm Ernesto Napolillo, all’epoca sostituto Procuratore di Biella.

Il processo si conclude in primo grado il 5 aprile 2019, con la storica sentenza che attesta la presenza della mafia nel Biellese: Antonio Raso è condannato a 14 anni di reclusione. È individuato come il boss della ‘ndrina nell’alto Piemonte. Nella primavera del 2020 inizia a Torino il processo in appello, con cui la Corte conferma le accuse ma riduce a 13 anni e 10 mesi la pena. Lo sconto riguarda una delle accuse di estorsione che secondo i giudici non si sarebbe consumata. Gli avvocati di Raso dichiarano da subito l’intenzione di ricorrere in Cassazione.

Viene processato a Biella con rito ordinario anche Angelo Di Corrado, il commercialista di famiglia accusato di intrattenere rapporti con personaggi del mondo bancario e dell’imprenditoria per favorire la penetrazione dell’associazione in attività lecite e di ottenere fidi, fideiussioni, appalti, organizzando il reimpiego dei capitali derivanti da attività illecite. Nella sentenza di primo grado viene condannato a 8 anni di reclusione. Nel 2020 a Torino si svolge il processo in appello, che si conclude a luglio con la conferma delle accuse e la riduzione della condanna a 5 anni e due mesi. Per quanto riguarda i figli, tutti i fratelli scelgono il rito abbreviato.

Il primo processo si conclude il 30 giugno 2017 a Torino, con 13 condanne e 2 rinvii a giudizio. Vengono condannati Diego Raso, Antonio Miccoli, Giovanni Raso “Rocco”, Enrico Raso, l’altro fratello Giovanni Raso e Giuseppe Avenoso. Nella sentenza della Cassazione dell’aprile 2019 sono contenute le condanne definitive, che prevedono per Diego Raso, giovane capo in ascesa, 13 anni e 2 mesi di reclusione, per Antonio Miccoli, braccio destro di Diego e principale autore di intimidazioni, estorsioni e spaccio, 13 anni e 2 mesi. A Giovanni Raso, detto Rocco, entrato in conflitto con il fratello Diego per il controllo degli affari di famiglia, la sentenza lo condanna a 8 anni e 7 mesi di reclusione, mentre per l’altro fratello omonimo, Giovanni Raso, è prevista una pena di 6 anni, 11 mesi e 10 giorni.

Enrico Raso, attivo nella cosca per le sue azioni di estorsione e per la detenzione illegale di armi, subisce la condanna a 8 anni e 8 mesi, infine a Giuseppe Avenoso, il compagno della figlia di Antonio Raso, viene riconosciuto un ruolo attivo nella detenzione illegale di armi. Per questo gli viene comminata una condanna a 3 anni, 10 mesi e 10 giorni di reclusione.

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