Giovedì 30 giugno, aula Bunker 1 di piazza Filangieri, Milano. Nel tribunale di fronte al carcere San Vittore si è svolta la terza udienza del processo Infinito contro la ‘ndrangheta. Un processo nato con la ‘maxi-operazione’ del 13 luglio 2010 e che nei prossimi mesi si prospetta lungo e articolato per la quantità di soggetti interessati: 160 gli indiziati dal Giudice delle Indagini Preliminari Andrea Ghinetti per associazione mafiosa. Le porte del tribunale aprono alle 9 e pian piano le gabbie metalliche ai lati dell’aula si riempiono.

I 39 indiziati vengono condotti uno alla volta dalle forze dell’ordine, chi preso sottobraccio dal poliziotto di turno, chi tirato per le manette, mentre qualche anziano è accompagnato in carrozzina sino all’interno della gabbia.  Un gruppo di settanta-ottantenni occupa la seconda struttura alla destra del magistrato. Bastone fra le mani, camicia color salmone o a quadri, facce tipicamente calabre scavate dalle rughe di una vita, di quelle che riempiono qualsiasi circolino di paese di provincia. Volti di ‘tranquilli’ signori settantenni con storie di migrazioni da sud a nord alle spalle e che, dopo una vita di fatica fra ‘i campi e la muratura’, si dilettano a giocare a carte di fronte alla farmacia, facendo di tanto in tanto una battutina maliziosa alle ventenni che escono dal panettiere. Questo, potrebbero sembrare. E invece no. Questi, secondo l’accusa, sono i peggiori criminali mafiosi del nord Italia.

Il processo inizia intorno alle 11; si procede con l’appello degli imputati e dei rispettivi avvocati difensori. Gli ‘ndranghetisti puntano lo sguardo il più possibile oltre il recinto, le loro mani si intrecciano fra le sbarre bianche delle gabbie. Qualcuno in attesa di vedere i propri familiari sul fondo dell’aula, chi per guardare i compagni dal lato opposto, altri per cercare lo sguardo del proprio avvocato. Si riconosce Carlo Antonio Chiriaco, classe 1950, direttore della Asl di Pavia dalla doppia vita, arrestato per concorso in associazione mafiosa e corruzione. Tuta da ginnastica blu, barba bianca e collare ortopedico al collo, il medico odontoiatra e amministratore politico pavese, che si vantava telefonicamente di essere il fondatore della ’ndrangheta a Pavia, compare in tribunale smagrito e debilitato, quasi sommesso. Incline a suscitar polemiche il suo legale Oliviero Mazza; convinto dell’innocenza del suo assistito, l’avvocato inveisce contro il Comune di Pavia: “Come può il sindaco Alessandro Cattaneo costituirsi parte civile contro colui che, per quanto afferma l’accusa, nel 2009 lo ha fatto eleggere indirizzando su di lui i voti della ‘ndrangheta?”.

In aula presente anche Giuseppe Antonio Neri detto ‘Pino’, classe 1957, per motivi di salute agli arresti domiciliari e non detenuto. Si lamenta, il ‘presunto’ referente della ‘ndrangheta in Lombardia, di esser stato vittima di un servizio televisivo non autorizzato. Baffetti scuri, volto scarno e abito gessato, Neri denuncia la diffusione a livello nazionale di sue immagini che “riprendono minuziosamente gesti e sguardi al fine di manomettere l’opinione pubblica”. Ed è da parte del suo legale Roberto Rallo che parte un’altra accusa, questa volta diretta alle associazioni antiracket e antiusura il cui scopo primario, secondo l’avvocato, “è quello di creare autoreferenzialità a priori fra le parti, senza che qualcuno fra i loro iscritti sia stato materialmente danneggiato dagli imputati del processo Infinito”.

Mentre gli imputati che hanno scelto di non comparire in aula si contano sulle dita di una mano, altri due sono isolati. Agli opposti; uno dietro a sinistra e l’altro davanti sulla destra. Il secondo è Michele Berlingieri, classe 1963, quello che era il Comandante dei Carabinieri di Rho e su cui ora pende anche l’accusa di 416 bis. Il primo un ipotetico ex carabiniere, sulla cinquantina; alto un metro e settanta, abbronzato dal sole, baffo calabro. Cammina avanti e indietro nei tre metri concessigli, tormentato, cercando di tanto in tanto contatti con l’esterno.

E finito un elenco ne inizia un altro: la chiamata delle parti civili. Prima fra queste, Augusto Agostino, imprenditore edile vittima di usura da parte di alcuni affiliati della locale di Legnano – Lonate Pozzolo. Attualmente coperto da identità segreta. Per poi continuare con un elenco interminabile di enti, regioni e comuni.

Prossimo appuntamento dell’iter giudiziario sarà il 12 luglio, udienza del procedimento con rito abbreviato, in cui si tornerà a discutere la tesi avanzata dagli avvocati della difesa. L’impossibilità di dimostrare il consolidamento di un’organizzazione stabile e coesa, composta da “una struttura sovraordinata, denominata Crimine e altre volte Provincia; tre strutture calabresi (Ionica, Tirrenica e Reggio Calabria) e altre strutture regionali presenti al nord tra cui la Lombardia; in ogni provincia sono poi presenti le varie locali”. L’impossibilità di avvalorare le parole contenute nell’ordinanza di custodia cautelare perché, come afferma un avvocato concludendo la sua arringa, riportano “i capi d’accusa più generici che abbia sentito”.


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