di Giorgia Venturini
Ecco che ancora una volta nel mirino delle operazioni della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano c’è la verde Brianza, o Briansa nel dialetto locale. Il bel territorio che si dirama per ben quattro provincie- Milano, Como, Lecco e Monza- ritorna ad essere centro di smistamento di potere delle cosche ‘ndranghetiste. Di associazione mafiosa, imprenditorialità collusa e politica corrotta riscrivono i giornali locali, mentre la società, quella sana si intende, riveste ancora i panni della vittima di un’organizzazione criminale che, impugnando l’arma dell’intimidazione, rivendica il proprio potere al nord.
Il brianzolo, il mese scorso, ha avuto la sensazione di ritornare indietro nel tempo. Un tuffo nel passato. In quell’ ormai lontano 2010 quando l’Operazione Crimine-Infinito svelò rapporti tra mafia e politica che portarono alla fine delle esperienze amministrative nei comuni brianzoli di Desio, Seregno e Paderno Dugnano. Quando la notizia dell’esistenza della mafia al nord incominciava a trovare spazio nelle riflessioni del cittadino comune, fino ad allora ancorate allo stereotipo che di mafia ce n’era una sola e per lo più arginata dalle acque del Po. Terminate le indagini però, che portarono alla condanna in primo grado con rito abbreviato 119 persone, la mafia aveva smesso di far notizia in Brianza. Ritornava il silenzio ai piedi delle prealpi lombarde. Passa poco tempo, però, che nuove cosche mafiose, approfittando del vuoto criminale lasciato dalle indagini, cominciano a farsi strada nel redditizio mercato brianzolo. È ormai cosa certa, dunque, che dal silenzio nasce la mafia, in un rapporto direttamente proporzionale.
A pochi anni di distanza, la cronaca si sposta, questa volta, a Seveso, un piccolo paese poco lontano da Seregno, che, seppur nel 2010 aveva superato indenne le indagini della Procura di Milano, è da sempre restato nell’elenco degli osservati speciali. Il mese scorso l’operazione condotta dalla squadra mobile milanese, guidata da Alessandro Giuliano, e dalla DDA del capoluogo lombardo coordinata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini, ha consentito l’arresto del quarantasettenne Giuseppe Pensabene, conosciuto agli inquirenti come affiliato alla ‘Ndrangheta fin dagli anni ottanta e co-reggente della Locale di Desio. L’accusa è di associazione mafiosa, riciclaggio, usura, estorsione, corruzione, esercizio abusivo del credito e intestazione fittizia di beni e società. Sì perché il sovrano, così soprannominato, insieme a 40 complici, di cui ora 21 in carcere e 19 agli arresti domiciliari, è stato ideatore, direttore e gestore di quella che lui stesso chiama Banca d’Italia, o meglio la sua Banca poiché a dettare regole e codici di condotta non era certo il governatore Ignazio Visco.
Gli inquirenti la ribattezzano banca clandestina, quello che in effetti è, perchè Giuseppe Pensabene concedeva, a tassi usurai, prestiti ad imprenditoriobbligati così a versare allo sportello ‘ndranghetista una quota mensile e, in caso di mancato pagamento, talvolta costretti a cedere le proprie attività all’organizzazione. I soldi venivano poi esportati in Svizzera o a San Marino e reinvestiti nella società sana attraverso l’acquisizione di attività economiche operanti nei settori più propizi all’organizzazione, quale quello dell’edilizia, dei trasporti, dell’energia rinnovabile, della ristorazione e degli appalti pubblici oppure utilizzati per sostenere economicamente famigliari di ‘ndranghetisti detenuti. Così facendo Giuseppe Pensabene e complici non solo riciclavano denaro sporco, ma si assicuravano anche il controllo assoluto su gran parte delle aziende brianzole.
Alleata indiscussa del crimine organizzato, in questi anni, è la crisi economica che costringe lavoratori indipendenti a cercare nuove soluzioni pur di non dichiarare il fallimento dell’azienda di famiglia. Tuttavia la miglior soluzione per rimanere sul mercato non è certo tendere la mano alla mafia. Appare banale questa osservazione. Ridicola pure da scrivere, ma, stando agli ultimi avvenimenti, è bene precisarlo. Non devono essere la facile ricerca di liquidità e i contributi economici agevolati ad allettare l’imprenditore brianzolo in difficoltà. Perché la mafia, e in particolare la ‘Ndrangheta in Brianza, ha sempre sì concesso prestiti, ma con interessi molto alti. E, per di più, non sempre saldabili in denaro. L’imprenditore, già vittima della crisi economica, non deve diventare anche vittima del sistema organizzativo mafioso. Il rischio si ridurrebbe partendo dalle regole fondamentali del mercato, quello legale si intende. Come? Non esercitando lavoro sommerso. Solo così si eviterebbero la continua ricerca sfrenata di liquidità e dunque il ricorso al braccio armato e non amico del mafioso che bussa alla porta. L’imprenditoria deve crescere. Risollevarsi. Ricominciare. Deve farlo, ma senza l’ingannevole aiuto mafioso.