In Liguria, come un po’ ovunque al Nord, non può che registrarsi il colpevole ritardo nell’attenzione al fenomeno mafioso. Il consueto disinteresse dell’opinione pubblica e la diffusa «presunzione di verginità» dalla mafia si sono affiancati ad una «prassi interpretativa rigorosa in ordine ai requisiti necessari per la configurazione di un’associazione di tipo mafioso»; sicché la criminalità organizzata, presente da decenni, non ha subito la doverosa repressione e nel frattempo si è irrobustita.
Un esempio paradigmatico di quanto si afferma è un uomo, Giuseppe Marcianò, originario di Delianuova (RC). Il suo nome comparve già nelle carte del processo Teardo, negli anni ’80, quando Ventimiglia viene descritta come «serbatoio di suffragi elettorali letteralmente “comprati” con pagamento in contanti per mezzo di Peppino Marcianò». Ma lo ritroviamo poi imputato per 416 bis a Imperia, nel 2013. Trent’anni di mafia dunque, trent’anni di collusioni con la politica. Suo fratello Francesco fu coinvolto nell’inchiesta Colpo della Strega prima di finire ammazzato in una faida.
Il caso Teardo vide arrestato l’ex Presidente della Regione, del PSI, alla vigilia delle elezioni politiche che lo avrebbero consacrato deputato. Le accuse mosse dalla Procura di Savona erano gravissime: associazione mafiosa, concussione, peculato ed altro ancora. Fu una delle prime applicazioni della nuova legge antimafia: sin dalla prima sentenza di merito però, la teoria del giudice istruttore non venne accolta. Secondo l’accusa erano ravvisabili i connotati dell’associazione di tipo mafioso: evidente l’intimidazione, l’assoggettamento degli imprenditori, la finalità dei profitti ingiusti nella quale venivano fatti rientrare i numerosi illeciti amministrativi consumati (assunzioni senza concorso, contratti conclusi con trattativa privata in luogo del bando pubblico ecc.) .
Teardo fu condannato, ma non per associazione mafiosa . Vengono dimostrati la concussione ambientale, il sistematico rastrellamento di tangenti, l’intimidazione agli imprenditori: la Liguria era dominata da un sodalizio politico-affaristico che configurava sì un’associazione per delinquere, ma per il Tribunale non era connotata da mafiosità. Emblematiche le parole dei giudici: «Occorre non perdere di vista la differenza tra l’arroganza del potere, che è degenerazione del costume politico, e la metodologia mafiosa, attraverso la quale il potere politico viene snaturato. E’ ben noto che in politica il potere acquisito agevola l’acquisizione di ulteriore potere; è altrettanto noto il fenomeno della lottizzazione politica; è un dato di comune esperienza che il partito o le coalizioni di partiti si sostituiscano alle sedi propri istituzionali, ma tutto ciò non è ancora espressione di violenza mafiosa e nemmeno di illegalità diffusa». Parimenti, non vi era assoggettamento, ma semmai paura di subire ritorsioni o di essere esclusi dai lavori, se non addirittura il timore di essere accusati di corruzione. Per quanto concerne l’omertà, il Tribunale di Savona esige un «rifiuto a collaborare con l’autorità giudiziaria generalizzato ed incondizionato che non si manifesti in forma episodica e occasionale»e non attribuisce rilevanza alle testimonianze reticenti che pur s’erano registrate.
Come è stato giustamente segnalato dal Prof. Pisa, però, la sentenza non convince del tutto; in particolare colpisce la tendenza «a rendere difficoltoso, o comunque a circondare di maggiori “paletti”, l’accertamento dell’esistenza di queste associazioni di tipo mafioso in ambienti non tradizionali e, soprattutto, in ambienti che abbiano delle commistioni o siano espressioni di settori politici» . Tale tendenza andrebbe combattuta: «Se il fenomeno concussorio è un fenomeno diffuso, gestito da un gruppo che si associa e che, per meglio utilizzare in chiave intimidatoria il potere e per meglio utilizzare i proventi di tale attività concussoria, si dà una struttura organizzativa, si deve parlare di associazione di tipo mafioso».
La ‘ndrangheta, anche in Liguria la mafia più potente al giorno d’oggi, non è stata l’unica forma di criminalità organizzata a cercare riparo o fortuna sotto la Lanterna. Il centro storico di Genova in particolare vide prima le scorribande dei napoletani, poi l’insediamento dei siciliani. L’azione dura della magistratura nei confronti in particolare di Cosa Nostra ha consentito, per effetto collaterale, alla ‘ndrangheta di rafforzarsi, sfruttando il noto cono d’ombra. Sin dagli anni ’60, per le ragioni che abbiamo richiamato nel paragrafo introduttivo di questo capitolo, in Liguria arrivarono numerose famiglie criminali. I napoletani furono i primi, sotto la guida di Giovanni Fucci (Mano e Pece) e della compagna Carmela Ferro (Marechiaro). Parallelamente si insediò a Genova AntonioRampino, ritenuto a lungo il capo della comunità calabrese, al cui funerale nel 2008 parteciparono Mimmo Gangemi, Onofrio Garcea, Carmelo Gullace, i Barilaro, AntonioRomeo, Giuseppe Caridi, tutti soggetti indagati per mafia negli anni successivi.
All’inizio degli anni ‘90 l’operazione “Taurus” fece luce sulle cosche Asciutto-Neri-Grimaldie Avignone-Zagari-Viola, aspramente rivali nel corso della seconda guerra di mafia calabrese e rifugiatesi con alcuni esponenti al Nord. Arrivarono le condanne, anche severe, per traffico di droga in particolare, ma non fu riconosciuto il 416 bis. Ancora una volta, i giudici ebbero problemi a dimostrare il clima di assoggettamento ed omertà; si nota però una profonda distonia con quanto sostenuto dal Ros e dalla stessa magistratura inquirente: come sarebbe accaduto anche in seguito, le ricostruzioni dell’accusa non trovarono fortuna presso i giudici, poco inclini ad attribuire la patente di mafiosità alle cosche delocalizzate sul nostro territorio.
I numerosi imputati di provenienza calabrese erano stati tratti a giudizio «per avere, unitamente ad altre persone non identificate, costituito e fatto parte (e – per quanto riguarda Asciutto Santo – per avere diretto ed organizzato) di un’associazione di tipo mafioso avvalendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti di omicidio volontario, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, detenzione e porto abusivo di numerose armi comuni da sparo e relativo munizionamento e di sostanze esplodenti, danneggiamento aggravato, lesioni volontarie, minaccia per costringere altri a commettere reati di falsa testimonianza nonché al fine di realizzare profitti e vantaggi ingiusti conseguenti al controllo di una zona del centro storico di Genova (c.d. zona “della Maddalena”) impedendo ad altri di svolgervi attività connesse al traffico di sostanze stupefacenti in Genova fino al marzo 1993» .
La sentenza della Corte d’Assise, tuttavia, non accoglie tale impostazione; sin dall’inizio della motivazione il collegio esplicita il proprio sentimento: occorre muovere dalle singole condotte delittuose per risalire al reato associativo e «l’accertata esclusione della responsabilità per molti o taluni dei singoli delitti oggetto del programma associativo non può non gettare un’ombra di dubbio sulla configurabilità nella specie del reato di cui all’art. 416 bis c.p.».Oggetto del procedimento erano anche gli omicidi Caltanissetta e Gaglianò.
Nonostante l’apporto fornito dalla collaborazione di Salvatore Caruso, per i giudici «è inverosimile la configurazione di un sodalizio mafioso a carico del quale non sia emersa la prova di una pluralità di reati che sia valsa a creare nell’ambiente circostante quell’alone di supremazia territoriale che induce intimidazione ed omertà nei soggetti passivi essendo indispensabile, ai fini della condanna in questa sede, l’acquisizione della prova che gli imputati siano riusciti ad instaurare anche nella zona della Maddalena quel clima di intimidazione e di assoggettamento omertoso che deriva dalla connotazione in chiave “mafiosa” del gruppo».
E’ evidente l’esistenza di un’associazione per delinquere semplice, tanto che i singoli soggetti vivevano principalmente del provento dei propri reati; ma tale sodalizio non è connotato da mafiosità secondo il collegio. Santo e Salvatore Asciutto, Giuseppe e SilvioComandé, Antonio Sorrento, Roberto Reitano, Salvatore Roberto Grimaldi e PietroBaldari sono ritenuti colpevoli del solo delitto di cui all’art. 416 c.p.
Dopo Taurus (che faceva luce sulle attività delle cosche genovesi), un’altra operazione significativa fu il Colpo della Strega, che portò all’arresto di più di quaranta persone, ritenute affiliate o contigue alla ’ndrangheta radicata nel ponente ligure e responsabili di gravi reati. Traffico di droga, rapine, estorsioni, ma anche omicidi: Maurizio Caputo fu ucciso nel 1984 sopra Sanremo, per il controllo del mercato dell’eroina; Vincenzo Carbone, un corriere della droga, fu freddato perché colpevole di uno sgarro; nel 1989 Aurelio Corico, altro trafficante, venne ucciso a Ventimiglia da Maurizio Chiappa e Roberto Cima. Non poteva mancare il condizionamento della politica e il sostegno ai candidati, di vari partiti: in particolare la comunità calabrese si era orientata sul compaesano Catrambone. Nell’ordinanza di custodia cautelare il GIP sottolinea il duplice livello di azione delle cosche: «quello illegale sottostante e uno legale di copertura. Livello legale che veniva svolto con l’esercizio di attività economiche svolte spesso con la compiacente complicità delle amministrazioni locali i cui rappresentanti elettivi chiedevano ed ottenevano l’appoggio esplicito delle organizzazioni criminali calabresi» .
Il vertice dell’organizzazione era costituito da Francesco Marcianò (fratello di Peppino), Giuseppe Scarfone, Ernesto Morabito, Antonio Palamara (lo stesso che sarà condannato nella Svolta). Ci furono i pentiti, come Paolo Morgana, che descrisse l’affiliazione all’onorata società; si parla dei Mafodda di Taggia, che avevano instaurato un clima di assoggettamento ed omertà. Ma alla fine «ritiene il Tribunale che il fenomeno descritto nel capo di imputazione sia in fase prodromica, mentre non vi è prova che fra gli imputati si sia stabilito un vincolo associativo vero e proprio. Infatti è risultato più che altro, salve le conseguenze per ciascuno di cui si dirà in seguito, che gli imputati non agivano come gruppo unico, ma come singoli, ovvero come sottogruppi». Si perviene quindi, ancora una volta, all’assoluzione per il reato associativo, cui si accompagnano invero condanne anche pesanti per i singoli delitti perpetrati (impostazione non contraddetta nel giudizio di appello) .