di Marco Fortunato
Como. Una città al crocevia tra Varese, Lecco, Milano e la Svizzera, capoluogo di una provincia di 600.000 abitanti, suddivisa in 160 comuni nei quali le organizzazioni di stampo mafioso sono pienamente insediate.
Le prime presenze di esponenti riconducibili a compagini mafiose risalgono agli inizi degli anni ’50 quando alcuni membri delle famiglie di Giffone, paese in provincia di Reggio Calabria, arrivano nel comasco per trascorrere le vacanze estive. È però con il soggiorno obbligato – come testimoniato dalla Commissione Antimafia – che giungono sulle rive del Lario ben 44 boss tra il 1965 e il 1975. Questi portano con loro il proprio capitale sociale, ovverosia la capacità di creazione di veri e propri network criminali, oltre a concittadini e parenti a seguito del boss trasferito.
La colonizzazione diviene evidente a partire dagli anni ’70, quando nella provincia di Como si contano quattro Locali di ‘ndrangheta: Como, Socco (frazione di Fino Mornasco), Cermenate e Mariano Comense. Secondo quanto testimoniato dal collaboratore di giustizia Raffaele Iaconis, l’anno di svolta per la criminalità organizzata calabrese nella provincia può essere fatto coincidere con il 1976. In quell’anno, infatti, la ‘ndrangheta decide di creare una sorta di“camera di passaggio”: una struttura sovraordinata alle varie Locali, che sarebbe servita sia per avere un controllo più diretto sull’operato delle colonie al nord sia per presentare le nuove Locali a Polsi. È in questo periodo che Giuseppe Mazzaferro, boss di Marina di Gioiosa Ionica e residente a Cornaredo per il soggiorno obbligato, crea attorno a sé un vero e proprio “clan” operante in tutta la Lombardia, il clan Mazzaferro appunto.
Il nuovo boss locale propone poi allo stesso Iaconis di federare le Locali lombarde con la creazione di una propria “camera di controllo”, sovraordinata alle stesse, per controllare il conferimento delle “doti” (i gradi della gerarchia ‘ndranghetista) e l’apertura di nuove Locali. Per aprire una nuova Locale in Lombardia è ora necessario che i membri si dedichino allo spaccio di stupefacenti. Attività che, però, dove essere necessariamente gestita dallo stesso Mazzaferro.
Questa “camera di controllo” avrebbe dunque scavalcato la “camera di passaggio” decisa dalla Calabria e rappresenta, dopo il confino, il secondo passo di allontanamento dalla “madrepatria”, seguito poi dalla decisione di non partecipare più alle riunioni al santuario della Madonna di Polsi e di riunirsi lo stesso giorno a Fino Mornasco per una incontro similare.
Dunque, il clan Mazzaferro e i suoi esponenti, certamente riconducibili alla ‘Ndrangheta calabrese, segnano un’evoluzione della ‘Ndrangheta: l’organizzazione radicata al nord non sente più l’esigenza di recarsi alla riunione annuale di Polsi in Aspromonte e si affranca dalla Calabria per la propria organizzazione e per il conferimento delle doti.
Tra gli anni ’80 e ’90 vengono istituite altre Locali non gestite direttamente da Mazzaferro. Nella provincia se ne contano così ben sei. In quegli anni, infatti, si aggiungono a quelle precedenti le Locali di Appiano Gentile e Senna Comasco, mentre quella di Socco diventa la Locale di Fino Mornasco.
Sempre a partire dagli anni ’80 viene dimostrato che gli affiliati di ‘ndrangheta impongono il pagamento del pizzo ad alcuni esercizi commerciali della provincia, sintomo della forza del controllo mafioso sul territorio. A mettere chiarezza circa la struttura dei clan di ‘ndrangheta a Como è la prima grande operazione dell’Autorità Giudiziaria nella provincia, “I fiori della notte di San Vito” del 1994. L’operazione porta a ben 370 arresti in tutta la Lombardia.
Ma di cosa si occupa esattamente la ‘ndrangheta a Como? Il core business è senza dubbio il narcotraffico. Un cablogramma del novembre 2009 pubblicato da Wikileaks e partito dall’Ambasciata americana di Roma dà conferma di come il traffico di droga sia una delle attività preferite dall’organizzazione. Nella pubblicazione si legge, infatti, come nella provincia di Como circolino grandi quantità di cocaina. Il file, parla dell’operazione “Colline comasche”, iniziata nel 2006 e conclusasi nel 2008. L’operazione porta all’arresto di 49 persone, con 59 denunciati alla DDA e un sequestro complessivo di 25 kg di cocaina, 1 di eroina, 10 auto e 13.000 euro di proventi del traffico. La città, però, non è solamente viatico di droga. Infatti, in un altro cablogramma del settembre 2004, partito dall’Ambasciata USA di Ankara, si legge che Como è considerata un punto di passaggio cruciale del traffico di esseri umani, dove le “vittime” vengono dotate di falsi passaporti e camuffate da turisti.
Un’altra operazione delle forze dell’ordine di grande importanza è “Infinito”, il filone milanese della più ampia “Crimine-Infinito” condotta in collaborazione con la DDA di Reggio Calabria che, scattata nel luglio del 2010, porta alla luce due nuove Locali di ‘ndrangheta nella realtà comasca: una ad Erba e una a Canzo-Asso, due comuni tra loro limitrofi. Durante le indagini le autorità accertano nuovamente la presenza della Locale di Mariano Comense, ma non si hanno più notizie delle Locali emerse nel blitz sopraccitato del giugno ’94.
Tra il 2006 e il 2010 le autorità individuano ben 36 episodi criminosi riconducibili alla ‘ndrangheta, quali auto e mezzi di lavoro incendiati, spari contro vetrine, auto e case, e anche un omicidio. Da quanto emerso finora dalle indagini si deduce che la ‘ndrangheta, così come altre organizzazioni criminali italiane, sia fortemente radicata a Como e provincia. Questa presenza è favorita, oltre che dalla posizione geografica, da quel clima di omertà che rende il fenomeno ancora più viscerale, più nascosto. I negozianti infatti etichettano gli attentati subiti come atti di vandalismo o “ragazzate” sostenendo di non aver mai subito pressioni o minacce. Ad esempio nel settembre del 2011 una bomba carta esplode davanti ad una trattoria di Olgiate Comasco, la cui deflagrazione si sente a ottocento metri di distanza. I commenti dei proprietari riflettono l’atteggiamento omertoso imperante: «Non abbiamo subito né avvertimenti, né richieste di denaro».
Risulta quindi evidente come la zona di Como e provincia non solo si sia impregnata delle organizzazioni mafiose ma ne abbia anche assorbito la cultura. È dunque importante capire che se l’opinione pubblica comasca non prenderà coscienza di tale situazione non si riuscirà a sottrarre alle organizzazioni criminali uno dei loro pilastri, il consenso.