di Anna Agosti, studentessa
Non mi avvalgo di un’iperbole nel dire che il corso di Sociologia della Criminalità Organizzata ha avuto su di me una potente forza di rottura. Una forza che ha vinto le resistenze culturali che mi sono accorta di aver naturalmente assorbito: prima del corso non mi ero mai accorta di averle interiorizzate, quindi non le avevo mai messe in discussione.
In queste settimane è stato piantato ‘in noi’ un seme di conoscenza, di interesse e di consapevolezza: rende maggiormente l’idea, però, la metafora, senz’altro meno gradevole, di un sasso, per gravità e pesantezza dei contenuti, ma soprattutto per l’effetto a cerchi concentrici che questo crea quando viene lanciato nell’acqua. Il corso, infatti, ha generato delle scoperte inaspettate, ha ampliato le mie conoscenze e stimolato la mia curiosità in direzioni da me non previste e finora inesplorate.
Esso ha innanzitutto spalancato le porte della storia e conoscenza del fenomeno mafioso, del quale ero profondamente ignara. Per me tutto è stato nuovo, tutto da scoprire: ogni “c’era una volta”, molti riferimenti a fatti, persone, vicende politiche. Spesso ho dovuto integrare gli appunti del corso con informazioni che colmassero le lacune che avevo, non solo sul fenomeno mafioso in quanto tale, ma anche su questioni a esso fortemente connesse, come la storia politica italiana del secondo dopoguerra, la storia dei partiti politici e i processi più rilevanti.
Mentre il corso proseguiva, mi sono quindi posta il problema di rimediare: mi sono interessata per la prima volta in assoluto – mi vergogno quasi a scriverlo – alla prima guerra di mafia, ai processi di Catanzaro e Bari, alla figura di Andreotti, agli omicidi del 1982, alla disciplina giuridica del reato di associazione mafiosa, alla seconda guerra di mafia, al ruolo svolto da Buscetta, al maxiprocesso, al processo Andreotti.
Il corso ha aperto tante ‘finestre’ su scorci della nostra storia e società. Per me il corso ha un merito che definirei ‘collaterale’: quello di avermi messo in contatto con quel grande pezzo di storia. Finalmente mi sono confrontata con quel passato che, sebbene recente, non percepisco mi sia stato tramandato sotto forma di consapevolezza.
Soprattutto, non mi è stato insegnato a scuola: il programma di storia al liceo è giunto alla guerra fredda, l’esame universitario di Storia Contemporanea ha trattato solamente la rivoluzione russa. Insomma, nessuno ha affrontato la storia italiana che ha seguito la seconda guerra mondiale. Assieme a quel tratto di storia se n’è andata anche la stagione stragista, forse l’unico periodo storico che avrebbe naturalmente sollevato interesse per il fenomeno mafioso in qualsiasi aula scolastica. In sedici anni di istruzione il fenomeno mafioso è stato citato da professori ed educatori solamente poche volte e sempre di sfuggita. Di certo, nella mia esperienza, nessuno si è mai preso la responsabilità di approfondire, spiegare, creare un terreno culturale comune in cui la nostra storia non venga rimossa.
Se, come afferma Falcone, la mafia “si può vincere […] impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”, nella mia esperienza è mancata miseramente l’istituzione della scuola, istituzione fondamentale nella costruzione dei cittadini di oggi e di domani, dei professionisti che si inseriranno in svariati settori, dei genitori dei cittadini che verranno. Così non si crea memoria. Ho acquisito consapevolezza del fatto che il contrasto alla mafia, invece, richiede una gran dose di memoria, perché la forza della mafia sta al di fuori di essa.
Mi rammarica, a posteriori, che l’istituzione scolastica mi abbia privato di questo bagaglio di conoscenza e consapevolezza; sento però anche la responsabilità di non essermene interessata in autonomia, aldilà dei programmi scolastici. Nata e cresciuta in Lombardia, rispettivamente a Milano e a Varese, senza avere la minima idea di cosa sia effettivamente la mafia e che essa riguardi anche me, non solo qualche paesino del sud.
Quante volte ho percorso i sentieri del Campo dei Fiori senza conoscere la storia di Ignazio Morrito! Quanti anni ho vissuto a Galliate Lombardo senza la consapevolezza dell’insediamento di Giacomo Zagari direttamente da Gioia Tauro e dell’inizio della colonizzazione della ‘ndrangheta nella provincia in cui vivo! E non si tratta di nozionismo. Da qui discende il buio culturale sulla presenza passata e attuale del fenomeno mafioso nei nostri territori, da qui discende il negazionismo, la mancata comprensione della società in cui viviamo, quindi l’incapacità di operare scelte coscienziose.
Gli stimoli forniti dalle lezioni mi hanno spinta a proporre in famiglia – e nella mia famiglia difficilmente si parla di mafie – di vedere film e documentari, cercando di rendere proficuo il tempo di reclusione dovuto alla pandemia. Sono così venuta a contatto con biografie che hanno fatto la storia della mafia e dell’antimafia, con rappresentazioni ‘vive’ dell’ambiente in cui le mafie operano, intendendo l’ambiente soprattutto come insieme di costumi, valori e visioni.
Il corso mi ha mostrato come la mia formazione di studente e cittadina si fosse finora perfettamente incastonata nella Grande Rimozione del Nord Italia.