di Dario Parazzoli
La Corte di Cassazione ha confermato le condanne emesse in appello per gli imputati nel processo per voto di scambio con la ‘ndrangheta e quindi anche per concorso esterno in associazione mafiosa, che portarono alle dimissioni in blocco del Consiglio Regionale della Lombardia nel 2012 e alle conseguenti elezioni anticipate nel 2013. L’ex assessore regionale Domenico Zambetti è stato definitivamente condannato a sette anni e mezzo di carcere. In attesa delle motivazioni della sentenza, c’è un aspetto poco analizzato che emerge da una delle inchieste giudiziarie sulla politica più clamorose del decennio: dalle intercettazioni effettuate si evince come la criminalità organizzata raccoglieva le preferenze e poi dimostrava il lavoro svolto ai politici. Nel dettaglio, la ‘ndrangheta analizzava gli open data, ovvero le informazioni pubbliche dei singoli seggi.
Per spiegare meglio il probabile meccanismo, utilizziamo come esempio la città di Milano che è divisa elettoralmente in circa 1250 seggi. Con un quantitativo così elevato di seggi anche i più votati ottengono zero preferenze in centinaia di seggi e una media di tre o quattro preferenza per seggio. Visto che le preferenze sono disponibili dal giorno successivo alle votazioni, se qualcuno ha promesso il proprio voto alla ‘ndrangheta e poi si scopre che nel seggio dove abita non risultano preferenze per il candidato imposto, la criminalità organizzata ha la certezza che quel voto promesso in realtà non è stato dato. Check silenzioso che evita rischi di meccanismi più certi ma anche più rischiosi che di solito vengono celebrati nei film, come il passaggio della scheda elettorale già compilata o la foto della stessa da inviare. Siamo quindi al paradosso che la rincorsa alla trasparenza che ha dato slancio alla diffusione degli Open Data stia rischiando di minare uno dei principi democratici più importanti: la segretezza del voto.
Dalle intercettazioni sembra che i procacciatori di voti della ‘ndrangheta per le elezione Regionali del 2010 e quelle Comunali di Milano nel 2011 indicavano al politico acquirente in quali seggi e in che quantità sarebbero apparse le preferenze raccolte per dimostrare l’avvenuto voto di scambio e grazie ai dati pubblici elettorali dettagliati seggio per seggio, il politico riusciva a verificare a grandi linee l’apporto ricevuto.
Il fenomeno potrebbe essere marginale, ma una discussione sulla effettiva necessità di avere il dettaglio delle preferenze dei singoli seggi si potrebbe fare visto che tale informazione oggettivamente mina il principio della segretezza del voto. C’è da capire se si può trovare un equilibrio tra l’esigenza della trasparenza e quella della segretezza del voto, o se ci sono vie alternative tipo la riduzione del numero dei seggi che rende però più complessa l’organizzazione della macchina elettorale.