Parrinu mia e ra nostra famigghia, tu si omu d’onuri e di valuri. Lu to nomi l’ha fari arrispittari e tutti quanti t’avemu a obbidiri. […]Mi raccumannu a tia, parrinu miu, liberami ri li sbirri e ra custura, libera a mia e a tutti li to amici.
Il padre nostro del picciotto. Amarezza e ironia. Come lui, padre Pino Puglisi. Nato a Brancaccio il 15 settembre 1937, alto e molto magro, con le orecchie a sventola, era spesso oggetto delle battute goliardiche dei suoi ragazzi. I giovani del centro educativo e aggregativo Padre Nostro. “Pensate i bambini del quartiere che dicono: “Andiamo al Padre Nostro”, “Io vado al Padre Nostro”. Ecco, il nome è già una metafora del ritorno al Padre, quello vero, e non il boss della borgata”. Don Puglisi amava spendersi per i più giovani. Li considerava il futuro, il punto da cui partire se qualcosa si voleva cambiare. E per farlo, in un quartiere difficile come Brancaccio, roccaforte dei Graviano, non si poteva che stare per strada. Sì, un prete di strada. Questo era Pino Puglisi. Un prete che alle volte non mangiava e che, anzi, al cibo preferiva la benzina; “mi serve per andare per le case, a trovare le persone”. Concepiva la sua missione come totale e mai avrebbe voluto che la sua parrocchia diventasse una stazione di servizio dove fare il pieno di documenti e sacramenti.
Erano gli anni di Don Camillo e Peppone, gli anni del pericolo rosso, quelli successivi al 1960, quando finì il seminario. Ma per lui, non erano un ostacolo. Non sdegnava, anzi cercava il dialogo e il confronto con tutti. Compresi gli atei e i comunisti. Era anche il periodo del Concilio Vaticano II e del messaggio di evangelizzazione, di ritorno tra la persone che la Chiesa si augurava. E 3P, così veniva chiamato dalla sua gente, non si fece trovare impreparato. Apertura e dinamicità, erano concetti che a lui non occorreva spiegare. Erano già suoi prima dello spirito riformatore conciliare. Dunque, rimozione della questua in Chiesa (“è una sorta di estorsione”); dunque, bambine che servono a messa; dunque, impegno per i dirittivi civili; dunque, un prete di strada.
Le battaglie per i diritti civili gli costarono nel 1970 il trasferimento in un paesino di montagna del palermitano, Godriano, accusato anche di essere un prete rosso. “Sono il prete più altolocato d’Italia”, così ci scherzava su padre Puglisi. Ironia, ancora. Ma anche una forte attenzione alle parole e alla loro etimologia. Padre nostro, altolocato. Non solo, 3P rifiutava le etichette. “Non sono un prete antimafia, non sono contro qualcosa ma per qualcosa”. Non gli è mai piacuto essere definito così. La sua missione non partiva dal contrasto alla mafia. Questa e la cultura, il messaggio che con essa venivano veicolati erano l’ostacolo della sua missione evangelica. Tentare di far abbracciare il credo del Vangelo e la cultura e i valori cristiani.
Così fece per tutta la sua vita. Sia quando fu trasferito a Palermo nel 1978 e iniziò ad insegnare al liceo classico Vittorio Emanuele II, sia quando nel 1990 gli assegnarano la parrocchia di San Gaetano, a Brancaccio. Il grande ritorno ai luoghi di gioventù. Vi trascorse tre anni prima del 15 settembre 1993. Il giorno del suo compleanno. Due killer lo incrociarono davanti all’ingresso della sua chiesa. Li guardò con il sorriso, se l’aspettava. Per questo nell’ultimo periodo si era messo in prima fila, davanti a tutti. Doveva essere chiaro che il “mandante” di ciò che ai boss dava fastidio, che mirava a delegittimarli, era lui. Fornire un esempio, smuovere le acque e lavorare senza illusioni. Le parole chiave con le quali padre Pino Puglisi concepì il suo ruolo. “Dobbiamo farci santi, ma santi sul serio, non mediocri”, scriveva negli anni prima di morire. E il percorso per diventarlo, anche nei registri ecclesiastici, è iniziato. Il 25 maggio 2013 don Puglisi è stato proclamato Beato.