La Sicilia con gli occhi di chi le appartiene pur essendovi cresciuto lontano. Un viaggio nella meravigliosa e dannata isola in cui è nata (anche) Cosa Nostra. Appunti al di là degli stereotipi e alla ricerca delle contraddizioni, uniche chiavi di lettura per comprendere la terra dei limoni.
Asfalto di fuoco e sangue: premessa.
Il capoluogo della Sicilia brucia: bruciano i campi, bruciano i copertoni delle ruote, brucia la spazzatura. Ed entrando per la prima volta in città il sospetto è che questo feto nient’altro sia se non l’odore acre dei morti ammazzati della Palermo degli anni Ottanta e Novanta. Rimane addosso e non se ne va, inutile liberarsene con una doccia a fine giornata: è oltre i vestiti e l’acqua non basta, penetra la pelle e ti accompagna fino a quando imbocchi l’autostrata per andartene. Come se i corpi delle vittime del periodo di sangue fossero ancora lì, trenta, vent’anni dopo, sull’asfalto rovente di agosto, a domandare riscatto per l’ingiusta e violenta fine. Lo domandano all’Italia dell’oggi perchè quella di ieri non ha saputo o, meglio, non ha voluto porgere l’orecchio. Salvo rare eccezioni, vittime sacrificali per un popolo dalla memoria debole. Roma è lontana: e quando si dice Roma si dice Stato, leggi, normative. Anche il semplice codice della strada: dovrebbe essere il medesimo per l’intero stivale e isole associate, eppure Palermo sembra averne uno a se stante.
I primi passi nel cuore della città.
Arrivo a Palermo in una domenica d’estate, nei giorni del rogo alla discarica di Bellolampo: la città è deserta, i mezzi pubblici sono spettri che giocano a nascondino e il caldo penetra nella testa e ti sbatte confusamente da una parte all’altra alla ricerca di ombra. Partire da via Alloro, scorcio caratteristico dell’antico quartiere arabo della Kalsa, e arrivare fino a via d’Amelio rigorosamente a piedi è un’esperienza mistica. Un pellegrinaggio sotto il sole: 4 kilometri e cento metri andata e altrettanti al ritorno raccontandosi, l’adulto e la bambina. L’inizio e la fine: è nella Kalsa che nasce Paolo Borsellino, a pochi passi dalla chiesa di San Francesco e dalla rinomata Antica Focacceria, fra vicoli e stradine interne che con i loro tentacoli apparentemente senza via d’uscita portano a mondi paralleli. Cortili poveri e sporchi contrastano eppur ben si amalgamano con la ricchezza dei monumenti e la vivacità intellettuale di uomini come quel Tomasi di Lampedusa che in questo quartiere passò gli ultimi anni di vita ambientando il Gattopardo.
Povertà, abiti scuri e un avvertimento: nel cuore del pellegrinaggio.
Le donne vestite di nero si affacciano silenziose ai balconi, tirando al suolo un cestello che il fruttivendolo ambulante riempie di pomodori e fichi. I ragazzi in pantaloncini e dorso nudo giocano a tirare sassi accarezzando gatti randagi. Prorompenti donne di colore spazzano per terra alla luce fioca di lampade vecchie, dalle loro abitazioni profumo di curry e spezie d’oltremare. Una bambina scalza entra in una porta stretta e buia di un palazzo sporco e pericolante, muri di pietra e impalcatura in legno. “Non può non sentirsi sicura nella Kalsa: è un quartiere ad alta presenza mafiosa e lei, turista, può star tranquilla: le facce brutte che vede in giro sono lì apposta per proteggerla”: durante l’intero viaggio queste parole, pronunciate da un ristoratore al termine del pasto, sarde a beccafico e involtini di pescespada impeccabili, continueranno a risuonare nelle mie orecchie come avvertimento e non come rassicurazione. O, meglio, una gratuita chiave di lettura del luogo in cui mi trovo. Poco più in là il mercato di Ballarò abbraccia in un vortice di grida e di colori: il profumo del pesce fresco e le urla dei venditori ipnotizzano il passante che viene imprigionato in una rete estatica di folklore, pungolato da sguardi affilati che penetrano l’obiettivo della macchina fotografica.
Epifania: granita al limone all’ombra del tribunale.
Palermo è una città di forti contrasti: da una parte la voglia di risorgere e di staccarsi dagli altisonanti titoli dei giornali collezionati negli anni, dall’altra l’abitudine al lutto, alla violenza, ai soprusi quotidiani. Lo leggo negli occhi di un cameriere quarantacinquenne: in quel bar a pochi passi dal Palazzo di Giustizia si afferra il senso dell’espressione ‘terreno di coltura’ utilizzata da Giovanni Falcone. “La mafia vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori (…) debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società”, diceva il giudice. Da una grossa automobile bianca posteggiata nel mezzo della strada scende un uomo con gli occhiali da sole. Prepotentemente entra nel bar, in silenzio beve il già ordinato, ritira le sigarette e senza pagare esce dal locale urtando la spalla del barista. Mentre osservo la scena e cerco ristoro in una granita al limone mi viene in mente San Vittore Olona, nel Milanese, e il giovane padrino della ‘ndrangheta Antonino Belnome che a bordo della sua Kawasaki si reca al Circolo Combattenti e Reduci, ordina un cappuccio chiaro e spara al boss secessionista Carmelo Novella. Il cameriere palermitano mi fissa immobile come una cinepresa realista che nulla aggiunge e nulla toglie: il mio pensiero era un azzardo, il suo sguardo la conferma al sospetto. La rassegnazione porta con sè almeno un briciolo di dolore; nei suoi occhi leggo invece l’abitudine. Ma a una cosa, a Palermo, non ci si può abituare: al puzzo della spazzatura, al feto dell’immondizia. I rifiuti abbandonati lungo il viale Francesco Crispi, parallelo ai binari del treno e al porto, si scorgono da lontano: sembrano fuochi fatui, e nel loro torpore la città si sveglia e si addormenta, in un’esistenza circolare e labirintica.
Poesia, speranza, l’albero della vita: verso via d’Amelio.
Camminando viene quasi da recitare i versi di Ungaretti: “In agguato, in queste budella, di macerie, ore e ore, ho strascicato, la mia carcassa usata nel fango, come una suola, o come un seme, di spinalba”. Nel pellegrinaggio il poeta trascina la sua carcassa simile a una scarpa consumata nel fango, ma la speranza che porta in cuore fa rinascere il corpo martoriato in luminoso biancospino. Via d’Amelio è una strada con due ingressi e nessuna uscita: già solo nella mappa questa strada, circondata da alti palazzi e divisa in due da una costruzione invalicabile, sembra una trappola per topi. Al numero civico 19 si trova l’albero della speranza, un ulivo ricorda il giudice morto ammazzato per mano della mafia e della parte marcia dello Stato. In molti vengono a commemorare il luogo della strage dell’estate 1992: associazioni, scolaresche, singoli cittadini. C’è chi lascia un biglietto in segno del proprio passaggio, chi lega ai rami fazzoletti, bracciali, cappelli, ricordi e parole. Per chi viene da fuori e vede questo luogo per la prima volta è una ricca testimonianza civile. Sono i giorni in cui in tutta Italia si parla di Trattativa: il magistrato antimafia Antonio Ingroia e la procura di Palermo sono sotto assedio mediatico e politico. Può sembrare banale, ma sapere per quale motivo non si è più vivi dovrebbe essere diritto di ciascun morto. Volgendo lo sguardo al Monte Pellegrino che sovrasta via d’Amelio rivolgo una laica preghiera toccando l’asfalto. Pensieri percorrono la testa: rabbia, commozione, senso di comunità che nasce dalla condivisione di un dolore ‘nostro’.