L’incontro con l’associazione Pé No Chão che ha appena concluso il suo tour nel varesotto e in alcune città del nord Italia.
“La vedi quella ragazza lì? Si chiama Ingrid, fino a pochi mesi fa non esisteva”. Ingrid è una delle ragazze che Pé No Chão è riuscita a portare in Italia. Lei, per lo Stato, era una sconosciuta, non aveva documenti, non compariva in nessun registro, come un fantasma. Ingrid vive in favela, a Recife, nord del Brasile, ma grazie all’associazione Pé No Chão è riuscita ad ottenere il passaporto e lasciare, momentaneamente, la favela. Così come Lucas che, giovedì 23 maggio, per la prima volta in 15 anni, ha festeggiato il suo compleanno lontano da casa. È il compito di Pé No Chão tenere i giovani favelados lontano dalla favela. Ma non dalla favela come luogo o dal suo folklore, dalle sue tradizioni. Tenerli lontani dal “trafico”, di droga, che nell’immaginario collettivo identifica questi luoghi. Pé No Chão ha un obiettivo: rompere lo stereotipo che i bambini di strada non abbiano una prospettiva. Perché ha un sogno: contribuire alla formazione di una società. Cosa sicuramente non facile in un contesto dove lo Stato sembra affacciarsi solo ora e la criminalità la fa da padrona.
Per anni l’approccio dei diversi governi brasiliani è stato orientato alla “metafora della guerra”. Le favelas erano viste come luoghi pericolosi, frutto di un processo di marginalità e devianza sociale, che intimorivano la classe media e alta. Questa paura era la base della reazione violenta dello Stato. La polizia militare entrava in favela e, violando diritti, affrontava, come se fosse in guerra, i narcotrafficanti. Non preoccupandosi di colpire civili, anzi i favelados erano considerati come persone coinvolte nel “trafico” vista la loro moralità dubbia. Con i governi Lula e Rousseff si è invece passati a progetti di “pacificazione”. Ora la polizia entra in favela, se necessario combatte, e poi ci rimane instaurando le Unidades de Polìcia Pacificadora con l’obiettivo di fornire servizi, come dovrebbe fare normalmente uno Stato, e “civilizzare” i residenti. “Adesso loro arrivano e sai che fanno? Mettono la bandiera brasiliana. Ma mettere la bandiera brasiliana significa dire che quella zona è parte dello Stato. E perché, prima cos’era?”, Aldir, uno degli educatori di Pé No Chão, è scettico sui nuovi progetti del governo.
È lo stesso Jocimar, uno dei fondatori, ad ammettere che non riescono a trattenere tutti i ragazzi che passano da loro, circa uno su tre lo perdono. D’altronde, se le premesse sono quelle appena descritte non ci si può aspettare molto. È capitato che qualcuno diventasse anche un capo di una “boca de fumo”, una piazza di spaccio. “Aveva anche dormito a casa mia” ricorda Mauro, con un sorriso che sa di amaro. Mauro è il “contatto” italiano. Sposato con Fatima, per Pé No Chão si è speso e si spende tanto. Tiene i contatti con loro, quando arrivano gli trova una sistemazione e dei luoghi dove esibirsi. Sì, perché Pé No Chão fa spettacolo. Con la loro “educazione di strada”, come chiamano il loro metodo, usano l’arte sotto forma di musica e balli per mobilitare i ragazzi, si va dai 13 ai 22 anni, cercando di “rafforzare la loro identità, l’identità collettiva, costruendo la propria autonomia e lottando per la trasformazione sociale”. A voz do tamburo africano, il loro spettacolo, esprime proprio questo sprigionando un’energia formidabile. I ragazzi e le ragazze ballano a ritmo di bonghi africani vecchie danze all’origine della samba e della capoeira; si recuperano le radici. Coinvolgono il pubblico, passano tra le file, lo trascinano con sé. Il loro sorriso è contagioso.
Ed è un piacere vedere come si impegna e si diverte Germano. “Non pensavo sarebbero riusciti a portarlo. Vedi Germano è gay e il problema è che ha 19 anni ed ha già iniziato a battere in favela”. Questo è il successo di Pé No Chão. In ciò è riassunta la loro “educazione di strada”. Il loro stare sempre con i ragazzi, presenti a qualsiasi ora. “Eravamo a Bologna qualche giorno fa, ad una riunione di educatori. Ci son rimasto male quando alle 17 in sala, con i ragazzi, ci siamo trovati solo noi brasiliani. Gli educatori italiani sono scappati via, come se fossero in ufficio”. Per Aldir essere un educatore vuol dire esserlo a tempo pieno. “Qualcosa abbiamo studiato, ma è in strada che ho imparato a fare quello che faccio”. E non c’è da stupirsi che fossero amici di Don Gallo.
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