di Mattia Maestri
Un boato. Un’esplosione assordante che risuonò in tutta la piazza, facendo tremare i vetri dei palazzi circostanti. Panico e urla strazianti. Sangue. Gente che scappava. Persone immobili distese a terra. Una voce in un microfono che gridava “Fermi, state fermi (..) Calma compagni, state fermi!”. Erano da poco passate le 10 del 28 maggio del 1974 in piazza della Loggia a Brescia e la voce era quella di Franco Castrezzati, segretario generale dei metalmeccanici della Cisl. Quel giorno erano state proclamate quattro ore di sciopero per reagire alla sequela di attentati e intimidazioni fasciste nella città. Bisognava schierarsi, bisognava esprimere il rifiuto e la condanna alla violenza eversiva di matrice neofascista. E Brescia rispose in massa all’appello dei sindacati: migliaia di persone sfilarono per la città mostrando con orgoglio l’appartenenza a valori quali la democrazia, la Resistenza e la legalità. Il corteo confluì, sotto una pioggia incessante, nella grande e accogliente piazza della Loggia e iniziarono gli interventi dei segretari confederali. Ad un certo punto il botto. Una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere. «Avevo iniziato alle 10 in punto, c’era gente che stava ancora entrando. All’improvviso, due minuti dopo, il fumo. E l’eco del botto. Ho visto la piazza come “aprirsi”, la gente a terra. Non riuscivo a capire…» ricorda Castrezzati, ancora scosso, in un’intervista rilasciata lo scorso anno al Giornale di Brescia.
Fu una strage. Otto persone rimasero uccise dal tritolo e più di cento ferite. Persone innocenti, lavoratrici, che volevano essere presenti e manifestare il proprio dissenso ad una strategia della tensione che aveva già iniziato ad imporsi meno di cinque anni prima con la bomba a Milano, in piazza Fontana, il 12 dicembre 1969. Tra le vittime gli insegnanti Luigi Pinto, 25 anni, e Alberto Trebeschi, 37 anni, con le loro colleghe trentenni Livia Bottardi Milani, Giulietta Banzi Bazoli e Clementina Calzari Trebeschi; gli operai Bartolomeo Talenti e Vittorio Zambarda, rispettivamente di 56 e 60 anni e il pensionato sessantanovenne Euplo Natali.
A loro va il nostro ricordo con la speranza profonda e l’auspicio sincero che la società italiana non dimentichi mai gli anni settanta, il terrorismo e la violenza inaudita per le strade. Erano gli anni della guerra fredda e del mondo diviso in due, che seguirono, in Italia, la grandissima contestazione giovanile del sessantotto e l’autunno caldo. Ed erano anche gli anni di massima espansione di Cosa Nostra che, grazie agli anni della lotta armata e alla totale attenzione mediatica al contesto politico e sociale, si apprestava a diventare il centro dei traffici illegali e criminali. Proprio quando la massima priorità dello Stato erano le Brigate Rosse e i fascisti di Ordine Nuovo, i boss Gaetano Badalamenti e Stefano Bontate ne approfittarono per diventare i maggiori trafficanti di eroina del mondo, prima di lasciare il posto, al termine di una sanguinosa guerra di mafia, ai corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano.
Gli storici, analizzando il panorama politico di quegli anni, hanno utilizzato il termine strategia della tensione (coniato dal settimanale inglese The Observer, nel dicembre 1969, all’indomani della strage di piazza Fontana)indicando, con tale espressione, una strategia eversiva basata principalmente su una serie preordinata e ben congegnata di atti terroristici, volti a creare in Italia uno stato di tensione e una paura diffusa nella popolazione, tali da far giustificare o addirittura auspicare svolte di tipo autoritario. Ed è questo il caso della strage di piazza della Loggia a Brescia.
Una strage che non ha colpevoli. Dopo quarant’anni, tre istruttorie, nove gradi di giudizio e molteplici depistaggi (basti pensare al lavaggio con idranti della piazza meno di due ore dopo lo scoppio della bomba), gli assassini e i mandanti non hanno né un nome nè un volto. Il 14 aprile 2012, infatti, il generale Francesco Delfino, i neofascisti di Ordine Nuovo Carlo Maria Maggi, Pino Rauti e Delfo Zorzi, l’informatore del Sid Silvio Tramonte, per i quali i Pubblici Ministeri avevano chiesto l’ergastolo, vengono assolti per insufficienza di prove. Non solo. Le parti civili vengono condannate al rimborso delle spese processuali. Oltre al danno di non aver fatto luce su questa dolorosa vicenda, un’umiliazione incivile verso tutti i familiari delle vittime e tutti coloro che si sono impegnati negli anni affinché venisse fatta giustizia sulla “strage fascista e di Stato”. Uno dei tanti, troppi misteri d’Italia che forse, purtroppo, resteranno tali per sempre ma per i quali si deve continuare a pretendere la verità. Non dimentichiamoci mai delle vittime, ricordiamole sempre. Altrimenti rimarrà solo il boato.