La storia di Placido Rizzotto, tornata in questi giorni a riempire le pagine dei quotidiani e i servizi dei tg, è una di quelle storie che dovrebbero insegnare a scuola.
A prima vista, pare vecchia; si parla di un’ epoca remota (il 1948 potrebbe sembrare la preistoria ai giovani figli dell’era della comunicazione digitale), di una regione remota (quella Sicilia periferia dell’impero di cui non si parla mai, bene. Male, al limite, che fa più notizia) e di un uomo “remoto”.
Cosa intendo per remoto?
Beh, intanto il giovane sindacalista originario di Corleone aveva vissuto da protagonista tutti i principali eventi storici del suo tempo; era stato soldato, in Friuli, durante il secondo conflitto mondiale. E, dopo l’armistizio dell’otto settembre, partigiano nelle brigate Garibaldi. Tornato a casa al termine della guerra avrebbe potuto decidere di starsene tranquillo, conscio di aver svolto il suo dovere per la sua gente, il suo Paese. Ma in Sicilia lo aspettava una realtà tremenda, che lui da contadino aveva imparato a vivere sulla sua pelle da sempre, a sentirne il respiro fetido e feroce sul collo; c’era il latifondo. C’era la mafia agraria che proteggeva i grandi proprietari terrieri e intimoriva i braccianti. E c’era quella libertà che aveva imparato ad assaporare sui monti della Carnia, nei lunghi mesi della lotta partigiana, che gli pulsava forte nelle vene. Non si poteva stare con le mani in mano, e Placido lo sapeva. Da lì, il passo che lo avrebbe portato a fondare la sezione dell’ANPI di Corleone, e successivamente a guidare le rivolte dei contadini del feudo di Drago, come delegato CGIL, fu breve.
Mi sarebbe piaciuto raccontare un diverso finale per questa vicenda; i contadini vittoriosi e festanti, il latifondo abbattuto, gli agrari in fuga, la terra per tutti…e il sole di Sicilia a illuminare i visi di uomini giusti e coraggiosi, come Placido, come i suoi compagni. Ma a un certo punto di questa storia, entra in scena un altro uomo, giovane, feroce, ambizioso. Un tal Luciano Liggio smanioso di affermarsi agli occhi del dottor Michele Navarra, capo dei capi della Corleone di quegli anni; che per guadagnarsi le grazie del suo padrone decide di mettere a tacere quel piccolo contadino che toglieva il sonno al boss, infiammando con le sue ridicole pretese di riforme e di giustizia i cuori di quei pezzenti che lo seguivano fiduciosi, e andavano fermati. Così, la notte del 10 marzo 1948, tre colpi di pistola sparati alle spalle misero fine alla vicenda umana di quel giovane bracciante che aveva osato troppo.
Ora, di questa storia si potrebbero ancora dire tante cose; si potrebbe ad esempio parlare della morte del piccolo Giuseppe Letizia, pastorello che avendo casualmente assistito all’omicidio, sconvolto lo riferì al padre. Il quale lo portò dal dottor Navarra (ebbene sì, il superboss era anche medico) perché gli desse un calmante per il suo povero figliolo, e questi solerte rispose iniettando una dose di letale veleno nelle vene del bimbo, il quale di lì a poco morì d’intossicamento.
Ma si stava ragionando sul perché la figura di Placido Rizzotto possa di questi tempi apparire remota.
Forse, dico forse, perché era un uomo, un lavoratore, con la schiena dritta. Un sindacalista impegnato nella difesa dei suoi compagni di lavoro di fronte ai soprusi di padroni arroganti e crudeli, e dei loro scherani mafiosi e istituzionali. Uno che non accettava condizioni inumane imposte con le minacce, ma si batteva perché i diritti dei lavoratori sanciti dalla Costituzione fossero applicati, senza sconti, senza deroghe. Chissà che avrebbe fatto, di fronte allo scempio della dignità del lavoro al quale assistiamo quotidianamente, in questi tempi di crisi…cosa avrebbe pensato, con chi si sarebbe schierato, come avrebbe reagito. Purtroppo, non ci è dato saperlo; ciò non toglie però, che una riflessione in questo senso si possa e si debba fare.
Quindi, ben vengano i funerali di Stato invocati da politici di entrambi gli schieramenti; sarebbero un giusto (anche se tardivo) riconoscimento dell’importanza del lavoro di questo piccolo grande siciliano. Ma meglio ancora, sia il benvenuto ogni insegnamento che dalla sua vicenda possiamo trarre, e condividere. Come fanno i ragazzi di LiberaTerra, che alla memoria di Placido Rizzotto hanno intitolato la produzione di due buonissimi vini, doni della sua terra di Sicilia. E il lavoro di chi quotidianamente si sforza perché i valori in cui credeva questo grande italiano diventino il pane quotidiano dei nostri rapporti, l’abc del nostro vivere civile.
Un patrimonio di coscienza e giustizia, che nessuna pallottola potrà mai fermare.