di Caterina Maconi
Sono quasi trenta, i ragazzi del Presidio di Lea Garofalo, qualcuno sta finendo le superiori, altri sono in università. Li incontro il giovedì sera precedente al festival dei beni confiscati nella loro sede, all’Acli di via Conte Rosso, a Lambrate. Si riuniscono qui ogni giovedì alle 21.
– Qual è la vostra storia? Come avete deciso di fondare un presidio di Libera?
Alcuni di noi due anni fa hanno partecipato al ritrovo per i giovani di Libera che si è tenuto a Scandicci. Lì sono venuti a conoscenza della storia di Lea Garofalo. Hanno scoperto che il processo di primo grado agli imputati colpevoli di averla torturata e uccisa si svolgeva al tribunale di Milano, si sono quindi interessati e hanno deciso di iniziare a partecipare alle udienze. C’è stato un passaparola tra amici e alla fine eravamo un gruppetto di persone a voler seguire da vicino il processo. La storia di Denise ci stava a cuore, non volevamo lasciarla sola contro tutti. Sì perché in aula c’erano solo i parenti degli imputati, nessuno che stesse dalla parte di Denise. Ci siamo organizzati cercando di fare in modo che qualcuno di noi fosse sempre presente durante il processo. Insomma, la nostra è iniziata come una storia di amici che volevano attivarsi, “fare qualcosa”. Dopo, col passare del tempo, ci siamo detti che sarebbe stato bello concretizzare, strutturare le nostre idee, farle convergere in un progetto. Allora abbiamo preso contatti con Libera, abbiamo fatto con loro un percorso di formazione che ci ha portati a fondare il presidio di Libera “Lea Garofalo” nel marzo 2012. Nel 2012 il comune di Milano ci ha premiati con l’Ambrogino d’Oro.
– Chi volesse unirsi al vostro gruppo e dare una mano, come può fare?
Alcuni di noi sono entrati in contatto col gruppo tramite i social network, come facebook, ma anche grazie al passaparola, oppure qualcuno ci ha chiesto informazioni durante delle attività cui abbiamo partecipato, per esempio ai giardini di via Montello sabato 19 ottobre pomeriggio, dopo che al mattino si sono tenuti i funerali pubblici di Lea Garofalo. Comunque ci potete trovare su tutti i social network, sul sito di Libera e ogni giovedì sera qui, all’Acli di via Conte Rosso 5.
– Quali sono i vostri obiettivi, i progetti su cui state lavorando?
Noi vogliamo avere un occhio di riguardo nei confronti della storia di Lea Garofalo e per questo abbiamo deciso di rimanere sempre in contatto con Denise, non vogliamo lasciarla sola. Le scriviamo, le mandiamo i nostri messaggi tramite il suo avvocato, Enza Rando. Le abbiamo addirittura fatto avere un nostro video, dove ci siamo auto ripresi, in modo che lei potesse dare un volto ai nostri nomi. Una volta ci ha risposto con un biglietto, ne siamo stati tutti molto felici. La teniamo aggiornata sui nostri progetti che coinvolgono la memoria di sua mamma, già in passato abbiamo contribuito a belle iniziative che si sono tenute nel comune di Milano sulla storia di Lea. Altre idee che stiamo sviluppando riguardano il gioco d’azzardo, ci piacerebbe poter fare educazione tra pari nelle scuole superiori, ci stiamo lavorando.
– Quale è stata l’accoglienza che avete ricevuto da parte dei parenti degli imputati durante il processo?
La più totale indifferenza, nessuna occhiataccia, nessun tipo di pressione. Erano impegnati a cercare di comunicare con i loro cari che si trovavano nelle gabbie dell’aula. Si scambiavano saluti e baci a distanza. Durante il processo di primo grado era tutto un pacche sulle spalle e sorrisi, non crediamo si sarebbero mai immaginati che i risvolti sarebbero stati quelli che noi tutti ora sappiamo. All’inizio noi eravamo in pochi, pochissimi, mentre loro erano un gruppo nutrito. Mano a mano che il tempo passava, noi abbiamo cominciato a crescere di numero, durante il secondo grado, poi, ci siamo ulteriormente organizzati. Molte persone ci chiedevano come poter partecipare alle udienze: amici, membri di Libera da tutta Italia, privati cittadini e persino scolaresche. Allora abbiamo fatto in modo di formare dei gruppi di persone eterogenei. Curavamo tutto noi: li accoglievamo e li portavamo in aula ad assistere al processo. Addirittura un giorno è venuta una scolaresca in pullman da Sassuolo. Insomma, dopo un po’ la situazione si è ribaltata: “noi” eravamo tantissimi, molti di più di “loro”, dei parenti.